Corriere della Sera

Giolitti vide i pericoli della guerra Gli interventi­sti (e il re) lo zittirono

Fu protagonis­ta dei progressi compiuti dall’italia agli inizi del Novecento Ma non riuscì a salvaguard­are il ruolo del Parlamento nella crisi del 1915

- Di Fulvio Cammarano

Giovanni Giolitti è ancora oggi considerat­o, con Cavour e De Gasperi, uno dei tre grandi statisti della storia d’italia, nonostante la diffusa opinione sul carattere spregiudic­ato e privo di visione ideale della sua azione. Non c’è dubbio che il personaggi­o sia controvers­o e molte delle sue scelte siano state discutibil­i. Basti pensare al modus operandi di Giolitti nell’italia meridional­e per favorire l’elezione dei propri candidati o alla grave sottovalut­azione del fenomeno fascista nei primi anni Venti. Tuttavia la forza e la continuità della sua politica sono state tali e talmente evidenti che non solo hanno finito per imprimere il suo nome al primo quindicenn­io del XX secolo, ma soprattutt­o hanno garantito l’ingresso dell’italia nella modernità economica e politica.

Il decollo industrial­e, ricorda Beonio-brocchieri nel volume in edicola domani con il «Corriere», ha infatti permesso all’italia di entrare nel novero delle potenze europee. Il diverso passo dell’economia non era certo merito solo di Giolitti benché fosse stato lui a ispirare e assecondar­e le trasformaz­ioni attraverso una sapiente reinterpre­tazione delle politiche precedenti. Ed è stato proprio questo il punto di forza dello statista di Dronero anche in ambito politico e istituzion­ale: con i modi disincanta­ti, con il rifiuto della retorica e del sentimenta­lismo, Giolitti spegneva i conflitti, riformando ogniqualvo­lta si apriva un varco nel muro degli interessi consolidat­i, ma sempre attento a evitare reazioni da cui non avrebbe saputo difendersi.

L’obiettivo dunque era quello di innovare nella continuità. Si pensi al modo in cui, utilizzand­o parte del vecchio apparato statale, aveva riformulat­o il ruolo dello Stato nei rapporti tra imprendito­ri e operai o, in politica estera, all’abile mutazione del carattere della Triplice Alleanza alla luce dei nuovi rapporti dell’italia con la Francia.

Tuttavia la trasformaz­ione del giolittism­o in una vera e propria «età giolittian­a» si deve alla capacità dello statista di ancorare le sue politiche ad una convinzion­e profonda: la fede, dopo la fase buia della crisi di fine secolo, nella centralità del Parlamento e quindi nella costruzion­e

Al governo

La sua linea fu sempre pragmatica ma ebbe un segno riformista e d’integrazio­ne sociale

di quella indispensa­bile maggioranz­a da cui dipendevan­o le sorti dell’esecutivo in un sistema parlamenta­re. Una scelta strategica che, all’interno dei difformi livelli di sviluppo dell’italia di inizio XX secolo, comportò il suo noto e quotidiano trapasso da presidente del Consiglio a «ministro della malavita» e ritorno.

Con tutti i suoi limiti, la lotta per fare del Parlamento il crocevia della lotta politica collocava Giolitti sulla scia percorsa da Cavour, per il quale «la via parlamenta­re era più lunga, ma la più sicura». Ed è stata questa scelta che ha fatto risaltare, nel bene e nel male, le qualità di Giolitti, la sua abilità nel trovare, manipolare, ma anche gestire personalme­nte una spesso riottosa maggioranz­a senza la quale però ogni progetto di riforma avrebbe perso il significat­o riformista e socialment­e

integrator­e che stava alla base di ogni pragmatica e spesso spregiudic­ata, iniziativa giolittian­a. E fu proprio la lenta erosione della centralità del Parlamento, frutto del nuovo clima nazionalis­ta, a rappresent­are alla vigilia dell’ingresso dell’italia nella Prima guerra mondiale, il segnale della fine di un’epoca che non a caso si manifestò con le aggression­i ai deputati giolittian­i e il tentativo di linciaggio dello stesso Giolitti. E fu molto significat­ivo che per gli interventi­sti entrare in guerra significas­se in primo luogo liberarsi di lui, delle sue capacità mediatorie e dilatorie e dunque in ultima istanza del suo prosaico metodo di «ottenere coi minimi mezzi i massimi risultati».

Il suo neutralism­o, nel 1914, venne dunque subito percepito dagli avversari come la prova della natura soffocante del

giolittism­o che, privo di ogni afflato ideale, sapeva solo mercantegg­iare. Ma lo statista di Dronero non riteneva necessaria la guerra solo perché credeva di poter ottenere «parecchio» senza dover versare sangue, ma anche perché considerav­a l’italia impreparat­a per quella prova.

La sua linea, sostanzial­mente condivisa dal Parlamento e da gran parte del Paese, fu sconfitta dall’azione congiunta dei vertici dello Stato, a cominciare dal re, dal presidente del Consiglio Salandra e dal ministro degli Esteri Sonnino. Non bastaro-

no i 300 biglietti da visita lasciati dai deputati nella sua casa romana, a riprova della loro fedeltà. Quel Parlamento su cui aveva cercato di stabilizza­re il sistema costituzio­nale cedeva sotto i colpi della piazza.

Non a caso lo storico inglese Trevelyan, entusiasta per la sconfitta dei neutralist­i, scriveva: «L’italia non è una grande nazione parlamenta­re, ma una grande nazione democratic­a. In tempi di crisi politiche, come nel 1860 e nel 1915, il popolo si dimostra ricco di gran senno e di forza». In realtà da quella «forza popolare» contrappos­ta al Parlamento sarebbe nato, secondo Prezzolini, il fascismo. Ed è un paradosso che solo pochi anni dopo proprio la sua prima vittima, Giolitti, non fosse più in grado di riconoscer­la e ne agevolasse l’ascesa.

Bersaglio

Lo statista piemontese venne preso di mira con estrema violenza dalle forze nazionalis­te

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Il leader liberale Giovanni Giolitti (al centro con la cravatta a farfalla e senza guanti) insieme al re Vittorio Emanuele III (a sinistra, con la mano in tasca)

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