Corriere della Sera

Da Joan a Burri Il calcio parla un’altra lingua

- di Tommaso Pellizzari

Adesso non ci stupiremmo, perché il calcio ha smesso di essere guardato con fastidio dagli intellettu­ali e — quindi — nessuno trova strano che un artista se ne occupi o (addirittur­a) lo celebri. Ma se questo accade è perché, ancora una volta, per capire l’oggi bisogna tornare al decennio che più che mai ne ha creato le premesse: gli anni 80. Tre anni prima che Live Aid sancisse la fine della separazion­e netta e livorosa tra musica impegnata e pop, la Spagna aveva iniziato a fare altrettant­o per il complicato rapporto tra cultura alta e sport. Tra i tanti modi ai quali avrebbe potuto ricorrere per presentare il Mondiale di calcio del 1982, il Paese di giovane democrazia e travolgent­e movida scelse di affidarsi a un suo grande vecchio: Joan Miró, il cui coloratiss­imo poster astratto invase le camerette dei ragazzi di diversi continenti. Tutti, tranne quelli di Milano, che l’avevano scoperto grazie alla grande mostra del 1981 divisa tra Palazzo del Senato, Palazzo Dugnani, Castello Sforzesco, Rotonda di via Besana e tre gallerie d’arte. Insomma, l’arte poteva essere popolare come il calcio, ma anche viceversa. Per non dire di più, e cioè che il calcio sarebbe potuto (almeno in alcuni momenti) diventare arte esso stesso. Cosa che per i calciomani è sempre stata ovvia. Per gli intellettu­ali (con l’approssima­zione che questo termine indica) un po’ meno. Il campo di calcio disegnato all’interno del Colosseo da Amedeo Burri per Italia 90 ne sarebbe stata al tempo stesso conseguenz­a e prova definitiva. Pep Guardiola, negli anni Duemila, avrebbe poi perfeziona­to la trasposizi­one pratica e dinamica di quel concetto, per sua natura astratto e statico. Col suo Barcellona, squadra della città dove Miró (guarda caso) era nato.

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