Lavia, la guerra tra i sessi porta all’autodistruzione
I l padre di August Strindberg realizzato da Gabriele Lavia per il Teatro della Toscana è uno spettacolo discutibile per due ragioni, una estetica e l’altra sociale. Parto dal Fus, il fondo che viene distribuito ai nostri teatri. Di questo esiguo fondo la maggior parte la recente legge la distribuisce ai sette teatri nazionali. Se il Teatro della Toscana impiega il più delle sue risorse per uno spettacolo, e se le impiega per edificare una scena tanto costosa quanto risibile, che cosa dobbiamo pensare?
La scena la intuiamo prima che si apra il sipario. Il velluto rosso ne tracima fin su una scala che sostituisce la prima fila di poltrone. A scena nuda, quella roba diventa, come scrive Lavia, «una vertigine di velluto rosso sangue dove il quieto salotto familiare comincia ad affondare nel naufragio di ogni certezza». Questa scena ha una sua stolta eloquenza: tutti i mobili, sedie e divani e scrivania, sono sbilenchi: perché, si suppone, non avremmo capito, dalle sole parole, quel che in quella trista famiglia andava succedendo.
Non voglio propriamente ricordare il «teatro povero» di non so più che epoca aurea, ma ne sarebbe il caso: per esempio pensando che oggi la maggior parte del nostro teatro è a scena nuda. Lavia voleva distinguersi? Voleva dimostrare un’originalità? O voleva essere fedele a se stesso, al suo passato? Quale ne sia la ragione, allora è da Il padre che dobbiamo cominciare. Se questo dramma del 1897 trent’anni fa, quando lo mise in scena Massimo Castri, era suscettibile di una quantità di letture, fino a una domanda metafisica (Strindberg ci sta parlando dell’incertezza su chi sia il padre, non si può mai sapere chi egli sia, non sappiamo la verità di ciò che non vediamo e tocchiamo con mano), oggi a me pare, al contrario, una cosa sola: verboso, ripetitivo, dimostrativo.
La questione non è chi sia il padre di Bertha, ma l’odio che corre tra il Capitano e la moglie Laura, ovvero, per stare a Strindberg, la guerra tra i sessi. Non dico sia un pregiudizio (lo è), è un partito preso assoluto: dalla prima battuta all’ultima, uno dei drammi dello scrittore svedese peggio invecchiati.
Si potrebbe dire anche così: uno dei drammi che meglio mostrano come i trent’anni passati da Castri a Lavia siano una incommensurabile quantità. Castri era già cauto nel tempo suo, era ironico, diffidente. Lavia ci crede fino in fondo, ha fede nel suo personaggio. Ci crede troppo: la moglie gli insinua, per i suoi maligni fini, un dubbio sulla paternità di Bertha e lui ci casca in pieno — fino a un’autodistruzione che Strindberg chiama pazzia.
Nulla di tutto questo è credibile. È proibito prenderlo sul serio: come non prendiamo sul serio quel simbolico vento che incessantemente ulula o ben poco gli attori (ricordo Federica Di Martino, Gianni De Lellis, Giusi Merli) che, mentre Lavia alza la voce, troppo spesso bisbigliano, o meno ancora il teatrino per bimbi cui, a dispetto dell’autore, si rivolge morendo: sei bello, sei la cosa più bella.