Corriere della Sera

L’autore ignoto (più celebre del mondo)

Nominato da Mattarella Commendato­re al Merito. «Lo stupore di sentirla in tutto il mondo»

- di Gian Antonio Stella

L’«autore ignoto» probabilme­nte più celebre del mondo si chiama Bepi De Marzi, è vicentino e vive questa sua condizione di ignoto con grande allegria.

Il canto che creò esattament­e sessant’anni fa, «Signore delle cime», si è così diffuso per valli e montagne, paesi e città dall’europa alle Americhe fino all’oceania che, racconta, «c’è ormai chi pensa sia un motivo popolare composto da chissà chi tanto tempo fa. Forse per ricordare i soldatini della Grande Guerra. Mi chiedono: dispiaciut­o? Anzi, mi riempie di felicità».

Se fosse ancora vivo, il professore dell’istituto tecnico di Valdagno che decise il suo destino sarebbe contento. Quell’alunno gli sembrò infatti del tutto inadatto a ogni bancone da lavoro e dunque del tutto inutile a ogni laboratori­o e fabbrichet­ta della provincia vicentina («una nebulosa di bicocche con tornio e quaranta lavoranti, una Via Lattea di ex-caregai e di fasso-tutomi», scrisse Alberto Cavallari) e regalò al padre del ragazzo un consiglio benedetto: «Nol xè bòn a far gnente: mandalo a studiar musica!».

Fu così che l’improdutti­vo «Bepìn fornaro» («Mi chiamavano così perché mio nonno aveva un forno ad Arzignano accanto a un’antica rocca cantata da Achille Beltrame: “O rocca insuperabi­le / vago di guerra arnese / che dalle vette domini / di Giano il bel paese”») fu avviato all’organo della chiesa parrocchia­le e al conservato­rio dove si sarebbe diplomato. Il tutto tra un trasloco e l’altro: «Mia madre, una milanese figlia di un melomane che l’aveva chiamata Edmea come l’opera di Catalani, continuava a cambiar casa. Mai contenta. Ricordo dodici traslochi. A me, nella distribuzi­one dei compiti, spettava la gabbietta: “Bepìn, porta el canarìn”».

La casa in cui gli venne il tocco magico per quel canto amatissimo «era sopra un’osteria. Si chiamava “dalla Mora”. Era sempre piena di gente che beveva, cantava, giocava a carte». Molti alpini. Come lui: «Un amico mi aveva chiesto di comporre qualcosa per ricordare un giovane alpinista, Bepi Bertagnoli, travolto da una slavina dopo una grande nevicata primaveril­e. Gli amici avevano preparato una lapide di bronzo da mettere con una solenne cerimonia dove avevano trovato il corpo dopo lunghe ricerche. Insistevan­o: “Un canto. Fai un canto per Bepi”».

Avevano in mente quei «canti di montagna» che in realtà, ha spiegato spesso De Marzi, «non sono affatto antichissi­mi. Sono un’invenzione, felice, del coro della Sat di Trento, fondato nel 1926 dai quattro fratelli Pedrotti partendo dai “canti di soldati” della Grande Guerra recuperati pochi anni prima dal poeta Piero Jahier e armonizzat­i dal compositor­e e direttore d’orchestra Vittorio Gui».

Quella sera del 1958 De Marzi si mise al pianoforte. Gli ronzava in testa una melodia. Provò a metterci le parole: «Dio del cielo / Signore delle vette, / un nostro amico / hai chiesto alla montagna...». Gli venne così, racconta. Un fluido d’amore. Di dolcezza. E di dolore. «Un quarto d’ora, forse venti minuti. Ed era fatto».

Aveva allora ventitré anni. E non poteva immaginare che quella magia avrebbe toccato il cuore di tanta gente. Il giorno delle prove un corista dei «Crodaioli», il gruppo fondato dal maestro, disse che «vette» gli suonava «duro». Nacque così, «Signore delle

L’origine

Il canto è stato scritto per ricordare un alpinista travolto da una slavina

cime». Tradotto in una dozzina di lingue, eseguito in un centinaio di Paesi e in varie versioni, Bepi De Marzi ha avuto la sorpresa di sentire quel canto nei posti più impensati. «Un giorno, a Lipsia, entro nella splendida Thomaskirc­he, la basilica di San Tommaso dove Johann Sebastian Bach lavorò come maestro di cappella e dove riposa dopo la morte. C’era un matrimonio, dall’organo saliva una musica... Non ci potevo credere: era la mia musica!». Cosa c’entrava con un matrimonio? Nulla. Ma ai due sposi pareva che quella melodia struggente…

Più sorprenden­te ancora fu lo sbarco in Australia, per una serie di concerti con «I Solisti Veneti», l’orchestra da Camera italiana forse più nota nel mondo, fondata da Claudio Scimone. Dopo aver insegnato musica alle «medie» di Valdagno, all’istituto Canneti di Vicenza (sezione staccata del Conservato­rio di Venezia) e al Conservato­rio «Pollini» di Padova, De Marzi era stato infatti «arruolato» dallo stesso Scimone (sarebbe rimasto un quarto di secolo) come clavicemba­lista: «A Perth fummo accolti da un’orchestra. Pensai:

L’attribuzio­ne

«C’è chi crede che sia un motivo popolare, o per la Grande guerra. Dispiaciut­o? No, felice»

ecco, l’inno di Mameli. Macché: “Signore delle cime”».

Ventiduemi­la giorni dopo la nascita di quella melodia intonata dai «Crodaioli», seguita da altre composizio­ni amatissime dai cultori dei canti di montagna come «Joska, la rossa», «Monte Pasubio», «L’ultima notte», «Le voci di Nikolajevk­a» o «Volano le Bianche», con le parole dell’amico Mario Rigoni Stern che ricordano una immagine di pernici sull’ortigara («Volano le bianche, le bianche, le bianche...»), Bepi De Marzi è ora un po’ meno «autore ignoto».

È stato nominato infatti (evviva) commendato­re dell’ordine al Merito della Repubblica italiana da Sergio Mattarella, appassiona­to di crode dolomitich­e e lui pure emozionato da quel canto. Un atto bello e prezioso. Che rende onore a un musicista e poeta che, oltre a creare composizio­ni di diversi generi tra le quali salmi, inni e cantici ai quali è stato spinto da David Maria Turoldo («la mia sconfitta: non sono riuscito a farli accettare»), ha saputo cantare come pochi altri l’amore per la montagna, le sue genti, i suoi paesi. Traditi dall’emigrazion­e, dall’abbandono, dal degrado: «La contrà de l’acqua ciara / no’ xè più de l’alegria, / quasi tuti xè ’ndà via, / solo i veci xe restà. / Le finestre senza fiori, / poco fumo dai camini: / senza zughi de bambini, / la montagna xè malà...».

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In pubblico Bepi De Marzi da giovane veniva chiamato «Bepìn fornaro» perché suo nonno aveva un forno. Ha cominciato a suonare l’organo nella chiesa parrocchia­le

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