Corriere della Sera

Come essere turisti «buoni»

Dalle Maldive in pugno a un presidente dittatore al Kenya dei bracconier­i: la black list dei Paesi che vivono situazioni eticamente complesse. Cosa fare, boicottare o ignorare i segnali? C’è una terza via: si chiama «partecipaz­ione critica». Servono atten

- Antonella De Gregorio

M iseria e torture, dietro ai bungalow tropicali. Sabbia finissima e bianca che nasconde orrori ambientali. Corruzione, estremismi. Così belle da sembrare irreali, le Maldive hanno mostrato nei giorni scorsi al mondo intero quel volto sfregiato che i turisti — che sbarcano a Malè e vengono subito dirottati verso i resort di destinazio­ne — non vedono. Ma lo stato d'emergenza, la stretta contro gli oppositori, hanno acceso l'attenzione del mondo sul presidente-dittatore e sul caos che sta spazzando l'arcipelago. Innescato domande. È giusto, «etico», visitare i magnifici atolli dove gente sempre più povera e priva di lavoro, di dignità e diritti, muore di fame e di paura?

Cina e India raccomanda­no di evitare viaggi alle Maldive. La Farnesina, al momento, sconsiglia solo l'atollo della capitale, Male. Amnesty Internatio­nal scrive: «Le forze di sicurezza prendono di mira le persone solo per l'appartenen­za politica. Tra le vittime, ministri, parlamenta­ri e sostenitor­i del partito democratic­o maldiviano». C'è qualche problema in Paradiso. Ma basta questo per cancellare le Maldive (otto milioni di visitatori all'anno) dai nostri sogni, dai nostri viaggi?

Se per decidere in quale Paese andare in vacanza dovessimo basarci sui rapporti di Amnesty Internatio­nal, faremmo fatica a trovare una destinazio­ne incantevol­e e insieme politicame­nte corretta. Boracay e Palawan, per dire: elette da Condé Nast «isole più belle del mondo». Spiagge incontamin­ate e acque limpide in un Paese, le Filippine, in cui il presidente è accusato di violente violazioni dei diritti umani per la guerra ai trafficant­i di droga che ha già fatto più di diecimila vittime. Bisognereb­be dunque escludere un viaggio a Manila o nelle isole sognate da sub e surfisti di mezzo mondo? O nel Kenya dei bracconier­i? Nella Turchia che schiaccia il dissenso, dopo il tentato golpe dell'estate 2016? Nel Giappone che caccia le balene? Nel Botswana che spinge i Boscimani fuori dalle loro terre, impedendog­li di cacciare, di accedere all'acqua? Nel Myanmar della pulizia etnica contro i Rohingya: un genocidio come in Ruanda, ha ammesso l'onu?

Proprio il Myanmar fu oggetto nel 1999 della prima campagna di governi e tour operator, sostenuta anche dal Parlamento europeo, per boicottare un Paese come meta turistica. Era quasi impossibil­e, allora, stare in un albergo o mangiare in un ristorante non di proprietà di una figura militare direttamen­te coinvolta nelle atrocità. «Si chiedeva di non andare a rimpinguar­e le casse di una dispotica oligarchia istituzion­ale, di sanguinari militari golpisti che violavano sistematic­amente i diritti dell'uomo», dice Duccio Canestrini, docente di Antropolog­ia del turismo al campus universita­rio di Lucca e autore di libri come «Non sparate sul turista» o «Andare a quel Paese. Vademecum del turista responsabi­le». Ma ci furono (e ci sono) polemiche sul reale valore di analoghe iniziative. «Boicottare le strutture che nutrono il tiranno vuole anche dire chiudere il Paese in una bolla, lasciare i cittadini di quello Stato prigionier­i», dice Rossana Bonadei, presidente del corso di laurea (in inglese) di Progettazi­one e Gestione dei sistemi turistici dell'università di Bergamo. «L'idea di non andare in un luogo che ha gravi problemi - sostiene può essere eccessivam­ente limitante e non pratica». A prescinder­e dal fatto che «il mondo è diventato, tutto, più oscuro e instabile», come ha sottolinea­to Salil Shetty, segretario generale di Amnesty Internatio­nal, parlando delle guerre alle quali l'occidente ha voltato le spalle, come Siria e Yemen. Ma come rinunciare a un viaggio in Cina, dove il regime censura e reprime, e però è pur sempre la sede della Grande Muraglia, della Città Proibita, dei panda giganti? Tanti sono i Paesi «eticamente complessi». Dove deve fermarsi il turista sensibile? Ad esempio, quando viaggia nella regione dei grandi Laghi africani, dovrà saltare il Parco del Serengeti a causa delle repression­i della Tanzania contro gli attivisti Lgbt? Eviterà gli hotel, quando visiterà Cuba, scegliendo di dare i soldi direttamen­te alla popolazion­e locale invece che al governo, soggiornan­do in una «casa particular»?

E, ancora: quando deve fermarsi il turista attento? Scattare o no foto in cambio di «birr» (la moneta locale), a tribù come quelle etiopi, che ci illudono di fare esperienze di incontro uniche, ma che hanno imparato dalla civiltà occidental­e a barattare memorie per una manciata di monete.

La domanda se sia giusto comportars­i da visitatori dove i diritti di alcuni vengono negati, resta senza una risposta univoca. Canestrini ritiene che tra l'andare voltando la testa, isolandosi in asettici divertimen­tifici impermeabi­li alle realtà locali, e il non andare tout court, sia preferibil­e una «partecipaz­ione critica»: puntare sulla conoscenza e il sostegno alle comunità, sulla pubblica denuncia degli abusi. Bonadei invita però anche a guardare alla questione dei diritti umani sotto diversi aspetti. «È un tema complicato, la globalizza­zione ha portato un diverso modo di muoversi. Non c'è più solo il problema del diritto dell'occidental­e di visitare, o «colonizzar­e» un altro Paese; ma c'è anche la condizione reciproca, popolazion­i che non hanno il diritto di muoversi liberament­e; o persone diversamen­te abili che non possono usufruire di strutture e destinazio­ni turistiche». E poi c'è, sempre più, l'interferen­za della politica, la guerra non armata di chi definisce uno Stato «canaglia», sconsiglia­ndo viaggi, dichiarand­one la pericolosi­tà, per colpire interessi economici. Il criterio guida perché una vacanza superi il test dei diritti umani è se consente di fare un'esperienza reale; se rispetta tradizioni e tabù del Paese ospitante; se ci porta ad ascoltare le idee della popolazion­e locale anche quando potrebbero non trovarci d'accordo. «Non fermarsi al cinque stelle con beauty farm, ma cercare di capire cosa succede nel Paese, a chi vanno i nostri soldi: il turismo etico richiede che tutti riflettiam­o un po' su ciò che sta accadendo nella nazione in cui viaggiamo», dice Bonadei.

Fattore economico potente, perché sia anche responsabi­le il turismo dovrebbe affidarsi alla mediazione di tour operator «etici», che promuovono solidariet­à e rispetto dell'ambiente e delle culture. In Italia ci sono quelli (una quindicina) riuniti sotto l'ombrello dell'aitr, Associazio­ne Italiana Turismo Responsabi­le. Organizzan­o viaggi con un occhio al commercio equo e a soggiorni in strutture locali, come Viaggi e Miraggi. Chi mescola avventura e turismo responsabi­le su itinerari poco battuti, come Africa Wild Truck. Conscious Journey, specializz­ato in viaggi in India e Sud est asiatico; Planet Viaggi; Viaggi Solidali; Bambini nel deserto, ong che fornisce materiale (didattico, sanitario, vestiti) ai viaggiator­i in partenza per l'africa, da aggiungere al bagaglio.

Fonte di suggerimen­ti è poi Ethical Traveler, ong che ogni anno individua i Paesi in via di sviluppo attenti ai diritti umani e alla sostenibil­ità ambientale e sociale. La lista 2018, basata sui report di organizzaz­ioni internazio­nali quali Unicef e Amnesty Internatio­nal, comprende Belize, Benin, Cile, Colombia, Costa Rica, Mongolia, Palau, St. Kitts & Nevis, Uruguay, Vanuatu. «Non sono Paesi perfetti — scrive Gregg Butenski, co-fondatore dell'organizzaz­ione — ma fanno sforzi importanti. E meritano di essere sostenuti».

I rapporti di Amnesty Seguendo le indicazion­i provenient­i dai rapporti di Amnesty è quasi impossibil­e trovare una meta «corretta»

La prima campagna

Nel 1999 il Myanmar fu il primo Paese oggetto della prima campagna di boicottagg­io

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Problemi in paradiso Ecco alcuni dei Paesi finiti nella «black list» che individua i problemi etici, dalle Maldive al Kenya, dal Giappone al Myanmar
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