Corriere della Sera

GLI ULTIMI ROMANI LA FEDELTÀ ALLA «RES PUBLICA» IN QUELL’IMPERO NATO AI CONFINI

Aquileia rende omaggio alla Serbia, terra dove si intraprese­ro campagne cruciali e dove si giocarono i destini di grandi imperatori. Il crepuscolo di un mondo che volle appartener­e alla potenza «caput mundi». Con orgoglio vivo

- di Giovanni Brizzi

La merita, la Serbia, una mostra come quella («Tesori e imperatori. Lo splendore della Serbia romana») che si apre a Palazzo Meizlik, in Aquileia. La merita perché, al di là della bellezza e dell’importanza dei pezzi esposti, ben sessantadu­e, provenient­i dai Musei del paese, ci parla del rilievo strategico di una terra il cui spazio si divise in antico fra tre diverse province di Roma, due delle quali, Pannonia Inferior e Moesia Superior, veri cardini difensivi del limes imperiale; e di un grande fiume, il Danubio, che era allora, ad un tempo, tramite e frontiera. Ma la merita, soprattutt­o, in nome degli uomini che, in quel tempo, la nobilitaro­no con il loro valore. Soprattutt­o a loro, e soprattutt­o agli esponenti del momento che portò all’effimero miracolo della Tetrarchia - a Claudio II, Aureliano, Dioclezian­o; ai minori…— vorrei rendere qui un breve omaggio.

Irrimediab­ilmente scavalcata dal principato nonostante ogni sforzo, la grande aristocraz­ia repubblica­na continuò testardame­nte a tener vivo, per i primi tre secoli dell’impero, blasone e idea generatric­e. In nome di entrambi, continuò a cullare le proprie ambizioni di potere, pur contentand­osi sempre più di identifica­rsi col principio che voleva, se non un impossibil­e ritorno alla forma repubblica­na di governo, almeno l’optimus sul trono.

Con questa idealità furono costretti a confrontar­si per secoli gli imperatori; e non solo loro. Anche la stessa, chiusa nobilitas degli ottimati dovette fare i conti, infine, con la sempre più accentuata, cosciente ed orgogliosa concorrenz­a del ceto equestre; che, da ultimo, ne raccolse l’eredità, etica prima ancora che di potere. Trasformat­i già ad opera di Augusto da mercanti, finanzieri, imprendito­ri in servitori dello Stato (e cioè in ceto di servizio), dalla graduale consapevol­ezza del nuovo ruolo loro affidato, i cavalieri maturarono infatti via via una vocazione politica prima sconosciut­a, divenendo i più gelosi e fedeli custodi dell’antica concezione serviana del munus, del dovere da rendersi alla res publica, alla «cosa di tutti», anche con la vita; e in particolar­e si fecero carico dell’essenziale funzione bellica. La progressiv­a rinuncia dell’antiqua nobilitas, di una nobiltà di sangue sempre più «impigrita e dimentica delle guerre», come dice Tacito, finì per lasciar loro quasi l’esclusiva della difesa dell’impero, portando all’emergere di una categoria di uomini che, in nome di una sorta di «specializz­azione funzionale», si sogliono definire viri militares: uomini che, usciti sovente dai ranghi dell’esercito, giunsero grazie al loro valore fino alle tres militiae, ai comandi minori dell’ordine equestre, e furono poi issati per cooptazion­e ai vertici della struttura militare, il comando delle legioni e il governo delle grandi province armate imperiali, come, appunto, Pannonia e Mesia.

Emersa del tutto con Marco Aurelio, questa componente prese a custodire, ormai sempre più sola, l’idea che alla base del potere imperiale dovesse esserci la virtus, in particolar­e la capacità bellica di chi prendeva l’impero sulle proprie spalle; sicché ritenendos­i depositari­a del compito di difenderlo, fu spinta, da ultimo, a rivendicar­e il diritto di governarlo, portando alla porpora molti uomini emersi dalle sue file.

Quella che è stata definita «anarchia militare» del III secolo, ma che si può forse meglio chiamare «seconda rivoluzion­e romana», ebbe come fine la ricerca, spesso incongrua e violenta ma in fondo sincera, dell’optimus da mettere sul trono; e non solo in nome delle esigenze di lotta a barbari sempre più minacciosi, ma come ossequio sentito a un astratto e forse frainteso, eppure tuttora necessario, principio morale.

Per questi uomini la moderna storiograf­ia ha accolto il termine di Illyrician­i, dalla terra che almeno militarmen­te li generò, e ha coniato quello di «Soldatenka­iser», di imperatori-soldati,

Gara di appartenen­za

Anche gli «ottimati» fecero i conti con la concorrenz­a fortissima del ceto equestre

a definire i sovrani guerrieri che si succedette­ro tra la fine di Severo Alessandro e il regno di Dioclezian­o. Che non nacquero tutti in Serbia, naturalmen­te; ma che nel servizio in Illirico (anche se forse soprattutt­o in Serbia: va segnalata la presenza qui del grande centro nevralgico di Sirmium, Sremska Mitrovica) ebbero la loro genesi etica.

Se, nel corso dei secoli, l’esser Romano significò soprattutt­o riconoscer­si nell’impegno di responsabi­lità verso una res publica questi uomini furono forse gli ultimi veri Romani, esponenti di un mondo in cui pienamente si riconoscev­ano e che tenacement­e difesero, ben meritandos­i l’appellativ­o di restitutor­es.

Giovanni Brizzi è ordinario di Storia romana presso l’università di Bologna

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Statue Eracle con Telefo, III secolo, marmo
 ??  ?? Gioielli
A sinistra, fibbia di cintura, Seconda metà I secolo in argento. Molte opere della mostra provengono dal Museo Nazionale di Belgrado
Gioielli A sinistra, fibbia di cintura, Seconda metà I secolo in argento. Molte opere della mostra provengono dal Museo Nazionale di Belgrado

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