Negrita: un viaggio in furgone per scongiurare la crisi
Una crisi doppia. Così è nato Desert Yacht Club (esce oggi), decimo album dei Negrita. «Da qualche anno eravamo una band sull’orlo del baratro, alla frutta. Per tante questioni non solo musicali, ma anche umane e personali. Cominciavamo a vedere lo striscione dell’arrivo», racconta Pau. Si assume la sua parte di colpe Drigo: «La vita ti mette a dura prova. Mi ero distaccato dal lavoro e mi ero concentrato sui cavoli miei e avevo perso di vista lo spirito della band». Aggiunge Mac: «Dopo 20 anni certi equilibri non erano più in equilibrio».
La soluzione è arrivata, come tante altre volte nel passato della band, con un viaggio. Con la scusa di un tour all’estero e una data a Los Angeles se ne sono andati in giro per la California e nel deserto in furgone. E lì è nato il disco, proprio nel Desert Yacht Club, struttura creativa realizzata dall’artista napoletano Alessandro Giuliano a Yucca Valley, alle porta del Joshua Tree Desert. Non un resort di lusso, camper, tende, container... e anche una barca.
I Negrita hanno portato con sé una strumentazione leggera, portatile: un computer, una scheda audio, casse da computer, basso acustico e due chitarre acustiche, iphone e app per generare suoni. «Registravamo attorno al tavolo della cucina. È stata la catarsi, la rigenerazione. Ci siamo rifasati», dicono i tre.
La seconda crisi è stata anagrafica. «Un giorno mi sono guardato allo specchio e ho visto i segni del tempo, mi sono sentito invecchiato. Allora ho pensato a cosa può raccontare una band a questa età», dice Pau. E allora c’è Non torneranno più, riflessione al gusto country sui «rimpianti che però non devono durare più di un giorno», spiega. Lo specchio è La rivoluzione è avere 20 anni: «Parla ai nostri figli per insegnargli che, finite le ideologie, non c’è un metodo per fare la rivoluzione ma un’età».
Il rock resta la guida, ma i suoni sono cambiati. «La barca nel deserto rappresenta anche i contrasti che ci sono stati sempre nella nostra musica. Dall’ultimo nostro lavoro è cambiato l’universo musicale. E anche la politica. I generi puri sono finiti come la Prima Repubblica. E allora, visto che eravamo quasi al capolinea abbiamo rischiato aprendoci di più all’elettronica, ma anche a country, folk, reggae e ai suoni della Giamaica di oggi».
Il deserto in qualche modo finirà anche nell’idea dello spettacolo. In attesa del tour vero e proprio la band ha annunciato tre concerti: 10 aprile a Bologna, 12 a Roma e 14 a Milano.