Corriere della Sera

Don Perdono

- di Massimo Gramellini

Un brusio di disapprova­zione ha attraversa­to la chiesa di Cisterna di Latina quando il parroco che stava celebrando i funerali delle sorelline Alessia e Martina Capasso ha invitato a pregare per il padre che le ha uccise. Il buonismo è passato di moda, ma un prete fa il prete, si dirà. Però è anche vero che la Chiesa cattolica deve una parte della sua fortuna alla capacità di comprender­e i limiti dell’animo umano. E tra questi limiti c’è la difficoltà di riuscire a perdonare chi ha fatto del male. Non subito, almeno. Il perdono, per essere vero, deve essere lento. Prima arrivano la disperazio­ne, la rabbia e la ferita del cuore, da cui il dolore uscirà un po’ alla volta come le lacrime, fino a formare una cicatrice. Ricordo la storia del ragazzo americano senza un soldo che si era presentato nel carcere dove era rinchiusa l’assassina di suo padre per offrirle il suo perdono; tutti i condannati a morte d’america, commossi, avevano fatto una colletta per pagargli gli studi. Ma quella visita in prigione, il ragazzo l’aveva fatta a dieci anni dall’omicidio, non la settimana successiva.

Invece il prete di Cisterna ha garantito dal pulpito che la famiglia dell’appuntato Capasso lo ha già perdonato. Come è possibile? Come si fa a saltare i passaggi intermedi? A fingersi buoni quando si avrebbe soltanto voglia di essere giusti? Anche un sentimento profondo come il perdono sta diventando un’emozione da consumare come tutte le altre. Il più in fretta possibile.

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