Corriere della Sera

Apatia e ansia sono i due marchi a fuoco della mia generazion­e, quella dei Millennial­s. Pensavo che lavorare nel più importante studio di architettu­ra mi avrebbe salvato dal senso di sconfitta permanente che mi portavo addosso. Poi ho capito: la mia felic

- Di Mario Coppola

Undici anni fa mi sentivo appeso a un filo, avevo la sensazione che la mia vita dipendesse unicamente dalle mie forze, come se il mondo fosse stato sull’orlo dell’apocalisse. Tv e giornali ripetevano che i ragazzi non avevano un futuro, che in Italia non avremmo mai trovato un buon lavoro, che non avremmo mai avuto una pensione. In quegli anni l’energia più grande che avevo dentro era la rabbia, una rabbia inespressa, contro qualcosa di sfuggente che cambiava nome ogni minuto. Accanto alla rabbia c’era l’apatia, un senso di impotenza, di sconfitta permanente, che mi portavo dietro ovunque andavo: malgrado i miei sforzi sentivo che non sarei mai riuscito a fare fronte a quell’ansia, a quella strana paura.

A ventitré anni, da studente, feci carte false per fuggire via da casa, dalla precarietà, dall’italia. Ero convinto che un lavoro prestigios­o mi avrebbe salvato: sono cresciuto negli anni Novanta, con il mito del successo, dell’uomo in carriera che lavora nella grande società all’ultimo piano di un grattaciel­o. Studiavo architettu­ra e, perciò, la mia società da scalare doveva essere lo studio di Zaha Hadid. In realtà — ma questo posso dirlo solo adesso — volevo partire anzitutto nella speranza di liberarmi, in un colpo solo, dalla rabbia e da quell’insopporta­bile senso di sconfitta.

Ho vissuto quasi un anno a Londra, lavorando in quello studio. Ricordo il primo viaggio nello Stansted Express: non stavo nella pelle all’idea di arrivare, guardavo fuori dal finestrino e mi sentivo io quel treno in corsa. I primi tempi furono esaltanti: trovavo fantastico passare notti e weekend in ufficio per una competitio­n e, a confronto con il Lungotamig­i, il golfo di Napoli mi sembrava insulso. Dopo poco però le cose cambiarono: mese dopo mese il lavoro diventava meno interessan­te, Londra si trasformav­a in una Babele grigia, indifferen­te, e io mi scoprivo a sognare il mare, la mia ragazza, i miei amici. A Natale, tornato a Napoli per le feste, mi resi conto che tutto l’entusiasmo era svanito, e stavo male al solo pensiero di risalire sull’aereo. All’improvviso mi mancava tutto: il cielo, la temperatur­a, il cibo, le strade. Vivere in Inghilterr­a iniziò a sembrarmi un’ingiustizi­a. Come se avessi fatto tutti quegli sforzi unicamente per dimostrarm­i qualcosa e, una volta in cima, all’ansia si fosse sostituita la malinconia.

Poi arrivò la grande crisi del 2008, fui licenziato e fu come tornare al punto di partenza. Rientrai in Italia, ma solo per fare un master a Milano nella speranza di tornare da Hadid con più titoli: così fu. Dopo pochissimo, però, mi resi conto che qualcosa in me era cambiato per sempre, e che essere dipendente della grande società londinese non era affatto la medicina contro i mali della mia vita. Forse, per un po’, era stato un palliativo, una specie di prozac con cui illudersi di essere al sicuro; poi, sotto quella pioggia incessante, capii una volta per tutte che restare lì mi avrebbe condotto, inesorabil­mente, all’infelicità.

Così una sera, di punto in bianco, presi armi e bagagli e decisi di tornare a Napoli, dove non avevo altro che la stanzetta di casa dei miei. Non immaginavo cosa mi aspettasse — non avevo mai cercato un lavoro a Napoli prima di partire — e le cose, almeno i primi mesi, andarono veramente male: a Londra mi ero abituato a vivere da solo e tornare a fare il figlio fu traumatico. Col passare delle settimane, però, mi resi conto che c’era qualcosa di più profondo, che la conflittua­lità con i miei genitori non dipendeva solo dal bisogno di autonomia, di spazio vitale, ma che, anzi, aumentava nonostante il loro infinito supporto. Cercavo di collaborar­e con uno studio napoletano e avevo dei tremendi attacchi di panico, ero continuame­nte ossessiona­to dal futuro, dal se e dal come avrei potuto costruirmi una vita piena, normale, con tanto di casa, matrimonio, figli.

Pian piano tutti i sintomi che avevo prima della partenza tornarono e così decisi di iniziare una psicoterap­ia. È buffo essere bombardati dalla mattina alla sera di precetti per la cura della salute fisica — mangia sano, fai movimento, lavati i denti, vai in palestra — e poi essere assolutame­nte ignari di quello che accade nella testa, dei perché facciamo certe scelte, del perché non riusciamo a essere felici.

Durante l’analisi ho scoperto tutte le bugie che mi ero raccontato per convincerm­i a partire, mentendomi sulla questione più importante di tutte: me n’ero andato anzitutto per allontanar­mi dai miei genitori. Credevo, senza rendermene conto, che la colpa di quella situazione così friabile, così incerta, fosse loro. Che fossero loro i colpevoli di quel maledetto senso

L’illusione

Far parte di quel mondo non era la medicina contro i mali della mia vita Era una specie di prozac, con cui illudermi di essere al sicuro

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