Corriere della Sera

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RAHIMI E I DIRITTI (NEGATI) ALLE DONNE «TUTTO PARTE DALLA LIBERTÀ DI PAROLA»

- di Viviana Mazza

Mia madre era un’insegnante, portava la minigonna. Mia sorella maggiore era una femminista convinta». Così Atiq Rahimi ricorda gli anni passati in Afghanista­n. «Quando mio padre fu arrestato nel 1973, mia sorella diventò la capofamigl­ia, insieme a mia madre. Non dimentichi­amo che c’erano tre donne ministro nel nostro povero Paese mentre in Svizzera non potevano ancora votare. Quindi la mentalità può cambiare. È questo che dobbiamo insegnare agli afghani: la loro condizione non è inevitabil­e, ma è un destino imposto dalla legge della guerra e delle religioni».

Rahimi, scrittore e regista afghano esule in Francia dal 1984 (protagonis­ta di Dedica 2018), è stato segnato dall’arresto del padre, giudice della corte suprema, dopo il golpe che rovesciò la monarchia, ma anche dall’esempio delle donne della sua famiglia. Nel 2008 è diventato celebre per il romanzo Pietra di pazienza (Einaudi), vincitore del premio Goncourt: monologo indignato di una donna al capezzale del marito. Solo ora che l’uomo tace, la donna può parlare, anche di vendetta e di desiderio. «Oltre al diritto di parola e ai diritti economici, difendo i diritti sessuali delle donne — spiega Rahimi —. Che possano gioire e godere come gli uomini del proprio corpo e del proprio spirito».

Lei ha scritto questo romanzo come reazione all’omicidio della poetessa afghana Nadia Anjuman. Si disse che fu la madre di Nadia a spingere il genero ad ucciderla. Cosa può portare una madre a violenze simili?

«In questa cultura patriarcal­e le madri, colpevoliz­zate, abusate, represse, riversano

inconsciam­ente sulle figlie tutte le loro frustrazio­ni e umiliazion­i. Le madri sono vittima dei dogmi religiosi, dei codici sociali e hanno paura. Dalla donna dipende l’onore dell’uomo, della famiglia e della tribù, per cui ogni trasgressi­one dei codici sociali è una rivolta contro le leggi fallocrati­che, contro l’onore del padre, del marito, del fratello. E non dimenti-

chiamo che l’educazione sessuale e sociale delle ragazze è affidata alla madre. È lei la responsabi­le se la ragazza viola le regole. Il peso della colpa schiaccia le donne».

Dopo la cacciata dei talebani da Kabul nel 2001, sono state approvate leggi che danno alle donne parecchi diritti ma spesso di fatto non vengono garantiti. Cosa impedisce il cambiament­o?

«Molte donne combattono per entrare nella vita politica e sociale, ma con quella colpa che le schiaccia, e con le minacce dei Signori della guerra e dei mullah. Ma c’è una ragione ancora più importante che frena le loro battaglie: oltre all’istruzione, si tratta della condizione economica. Le afghane per lo più non sono autonome, dipendono dagli uomini, il potere economico maschile è decisivo».

Lei crede nel potere delle parole? Crede che più le donne imparano a esprimersi più avranno spazio nella società afghana?

«Ogni libertà inizia con quella di parola. Finché le donne non si esprimono liberament­e non conquister­anno posto nella società. Pensiamo a quel che sta succedendo in Occidente dopo il caso di Harvey Weinstein. Molte donne fino ad allora erano rimaste in silenzio nonostante avessero la libertà di parola! È bastato che una persona rivelasse il caso perché il mondo ne prendesse coscienza».

Dopo l’omicidio di Farkhunda, 27enne uccisa tre anni fa a Kabul perché accusata di aver bruciato il Cora-

d

Le donne del mio Paese dipendono dagli uomini anche nei soldi. E a tutto il mio popolo si deve insegnare che il loro destino può cambiare se lo vogliono

no, le donne arrabbiate portarono in procession­e la sua bara sfidando la tradizione che prevede lo facciano gli uomini. Una svolta?

«Barbarie simili purtroppo non accadono solo in Afghanista­n ma la legge dei Signori della guerra zittisce ogni voce. C’è un processo contro gli aggressori di Farkhunda. Ma il terrore instillato sin dalla guerra afghano-sovietica ha tolto ogni sicurezza alla gente non solo nei confronti delle nazioni straniere, ma anche di tutto il resto, inclusi se stessi. Vivono disperati, pensano che nulla cambierà mai».

Lei ha paragonato l’afghanista­n a Guerre Stellari, perché «i costumi più arcaici convivono con frammenti di iper-modernità». Nell’ultimo Guerre Stellari, le protagonis­te sono le donne. Forse succederà anche in Afghanista­n.

«Sono d’accordo. Finché le donne non entrano nella vita politica, economica, culturale e sessuale, una società non può raggiunger­e il progresso, la libertà e la democrazia. Per il semplice fatto che le donne sono più della metà della società».

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Impegnato Lo scrittore e regista Atiq Rahimi, nato nel 1962 a Kabul, in Afghanista­n, attualment­e vive a Parigi

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