La vita narrata a cuore aperto Così la confessione è un’arte
Da «Pietra di pazienza» fino a «Lolita»: quando parlare di sé è rinascere
In scena L’attrice iraniana Golshifteh Farahani e l’attore Hamid Djavadan, i protagonisti di Come pietra paziente, il film del 2012 tratto dall’omonimo romanzo di Atiq Rahimi che ha firmato anche la regia. Una giovane donna afgana, tra le macerie di una città in guerra, si prende cura del marito. La donna riuscirà a trasformare il corpo vivo e immobile del marito nella sua «pietra paziente», alla quale confidare angosce, ricordi e speranze, inscenando una perfetta confessione alla fine liberatoria
Uno dei romanzi più popolari dell’ungherese Sandor Marai, L’eredità di Eszter, si apre così: «Non so che cosa mi riservi ancora il Signore. Ma prima di morire voglio narrare la storia del giorno in cui Lajos venne per l’ultima volta a trovarmi e mi spogliò di tutti i miei beni». La protagonista, nonché io narrante, ci rivela tutto nelle prime tre righe: che non è più giovanissima; che è stata ed è tuttora vittima di un uomo il quale le ha rubato vita, sogni e averi; e che quest’uomo sta per tornare e assestarle il colpo fatale.
Un azzardo narrativo, eppure è anche un efficace modo di trasformare una confessione in una liberazione. La resa di Eszter è un sottile riscatto letterario: lui ha vinto, sì, eppure il potere del racconto è di lei, della vittima. Che impietosamente rivela, poco alla volta, i dettagli di una sopraffazione allegra e tipica degli uomini innamorati di se stessi: illudono, tradiscono e scompaiono senza mai perdere quel sorriso da prestigiatore. Il ritratto (mano a mano più realistico e grottesco) che ce ne fornisce, è una lenta demolizione del suo carnefice: e così la vittoria è di colei che narra, colei che crea, un po’ come nelle Mille e una notte, dove Shahrazad ha la meglio grazie alla narrazione infinita.
E anche il romanzo più famoso di Atiq Rahimi, Pietra di pazienza (Einaudi) segue questa struttura sofisticata: la protagonista (una donna afghana), condannata ad assistere e salvare il marito in coma perché colpito alla testa, trasforma il capezzale in un confessionale aperto, si libera dei sassi che gravano su una persona oppressa sin dall’infanzia, piena di paure e di divieti. Ma non sempre, nella letteratura, la confessione corrisponde a una perfetta catarsi: nel «je m’accuse» più famoso del secolo scorso, Lolita di Nabokov, Humbert Humbert non racconta il suo crepacuore nei dettagli per salvarsi, bensì per precipitare negli abissi insieme alla bambina che lo ha irretito. Ci piace per questo, perché la redenzione è esclusa sin dalle prime parole, celebri: «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia».
Qualche volta la confessione è un ancor più sofisticato esercizio psicologico-stilistico e capita che lo scrittore o la scrittrice diano voce a personaggi di sesso opposto rispetto al loro. È il caso di Noi credevamo, dove Anna Banti, attraverso le memorie di un nonno calabrese— mazziniano e a lungo imprigionato dai Borboni — racconta l’italia subito dopo l’unificazione. Dall’altra parte del cielo troviamo, per esempio, Alberto Moravia che veste panni femminili in diverse opere, da La romana a La Ciociara fino a Un’altra vita.
Le confessioni più dolorose sono quelle che sconfinano nel territorio coniugale: riportate con un solo punto di vista, sono laceranti proprio perché prive dell’occhio dell’altro o dell’altra. Sylvia, romanzo autobiografico di Leonard Michaels, è il racconto di un amore che si consuma fino al suicidio — reale — di lei, di Sylvia Bloch, la prima moglie dell’autore. Non sapremo mai chi fu davvero questa donna alla quale lo scrittore/protagonista si consegnò in una notte americana degli anni Sessanta, tra proclami poetici, droga e albe fumose.
Quanto investimento emotivo occorre per una confessione letteraria? Moltissimo, perché il rischio è alto. Dal pericolo di autocommiserazione (come avrebbe potuto essere per Eszter) alla menzogna, alla parzialità.
Anche perché, come ha detto bene Gilles Deleuze: «La vita non è personale». ● ●