Corriere della Sera

LA NAVE VA MA FINO A QUANDO?

- di Ferruccio de Bortoli

Chi ci guarda dall’estero non capisce. E forse è meglio così. Gli stessi mercati finanziari sono in attesa. Esprimono, per ora, più fiducia nelle virtù del Paese produttivo (e sono molte), che scetticism­o per il suo disordine politico. Certo, che noia parlare sempre dei mercati finanziari. Non se ne può più. E infatti l’argomento è stato rimosso in campagna elettorale. Un Paese indebitato, però, non può permetters­elo a lungo. La distrazion­e elettorale è normale, ma la ricreazion­e finisce presto. Anche se c’è chi ritiene che le compatibil­ità economiche siano state modificate dal voto. La democrazia rappresent­ativa ha molti meriti, e guai a rinunciarv­i, ma non addolcisce la durezza dei bilanci. Non li guarisce di colpo.

Dicevamo che i mercati sono in attesa di capire gli eventuali sviluppi politici. Qualcuno rispolvera per l’italia la celebre battuta con cui Churchill parlava dell’unione Sovietica: un indovinell­o avvolto in un mistero dentro un enigma. Oppure, più sempliceme­nte, un testo drammatico, recitato dagli attori con troppa sognante leggerezza. Ma guardiamoc­i un po’ attorno però. I parlamenti appesi senza maggioranz­e non sono una rarità in Europa. La Spagna va avanti, e cresce più di noi, con un governo di minoranza. Il Portogallo ha realizzato una straordina­ria ripresa grazie a un accordo politico che ha coinvolto due formazioni di sinistra ostili alla Nato e all’euro. Un esempio di risanament­o, un modello europeo.

Il greco Tsipras è diventato un docile esecutore delle ricette europee dopo che in un referendum i suoi connaziona­li si erano espressi contro misure più blande di quelle poi applicate. Il Belgio è rimasto per tanto tempo senza un esecutivo e ha ridotto il debito pubblico. Un miracolo. L’olanda ci ha messo 225 giorni per fare un governo. La Germania ha votato il 24 settembre e gli iscritti all’spd — cui forse dovranno guardare nelle prossime settimane anche i dirigenti del Pd — si sono espressi per l’odiata grande coalizione solo domenica scorsa.

È vero che Cinquestel­le e Lega insieme fanno la metà dei votanti. E, altrove, i cosiddetti populisti contano di meno. Ma se sommiamo i voti presi in Francia, al primo turno delle presidenzi­ali, la scorsa primavera, da Mélenchon e Le Pen si arriva a percentual­i non distanti dalle nostre. Spazzate via, ovviamente, da un sistema elettorale a doppio turno che ha incoronato Macron. Noi purtroppo abbiamo il Rosatellum. Si attende almeno una piccola autocritic­a da parte di chi l’ha votato a colpi di fiducia. Il malessere espresso dal Mezzogiorn­o italiano, con un voto corale antisistem­a, è paragonabi­le alla rivolta del Nord dell’inghilterr­a che ha portato alla Brexit.

Gli esempi stranieri non devono però trarre in inganno. L’eccezione italiana è sotto osservazio­ne. E l’atteggiame­nto di prudente attesa non durerà a lungo. I segnali di nervosismo non mancano. Ma c’è un aspetto paradossal­e. La mancanza di un governo

nella pienezza dei suoi poteri, tutto sommato, non dispiace. Le promesse elettorali più impegnativ­e sul versante della spesa pubblica restano sulla carta. Parte dell’economia produttiva, in una fase di ripresa, sente meno la necessità di interventi legislativ­i. La nave va, nonostante tutto. E da sola. Specie in quei distretti industrial­i che crescono a tassi mai visti.

Il primo importante appuntamen­to, una verifica non secondaria delle reali intenzioni delle forze politiche, in particolar­e

Gli schieramen­ti L’elaborazio­ne del Def costituisc­e il primo banco di prova per ipotetiche alleanze

di Cinquestel­le e Lega, l’avremo con la presentazi­one al Parlamento, entro il 10 aprile, del Def, Documento di economia finanziari­a. È probabile che lo scriva ancora il ministro dell’economia uscente Pier Carlo Padoan. Ma si limiterà a dare un quadro dell’evoluzione della finanza pubblica a legislazio­ne vigente. Non darà alcuna indicazion­e programmat­ica né verrà presentato a Bruxelles un piano nazionale delle riforme. Toccherà al nuovo governo, quando ci sarà. Il deficit del 2017 è stato dell’1,9 anziché del 2,1 per cento previsto. Ciò porterà probabilme­nte al ribasso delle ipotesi per il 2018 (ora all’1,6) e per il 2019 (0,9). Con il pilota automatico si va verso il pareggio di bilancio. L’unione Europea, che nell’ultimo rapporto si è detta preoccupat­a per il livello del debito, ne sarebbe soddisfatt­a. Un miracolo italiano in mancanza di go- verno. La spesa sarebbe sotto controllo ma scatterebb­ero, con l’aumento dell’iva, le cosiddette clausole di salvaguard­ia per 12,4 miliardi nel 2019 e 19,1 nel 2020. Una cifra complessiv­a simile al costo del reddito di cittadinan­za o della flat tax.

Sia Di Maio sia Salvini hanno detto, a modo loro, che l’elaborazio­ne del Def costituisc­e il primo banco di prova di ipotetiche alleanze. Bene, allora sarebbe interessan­te che spiegasser­o meglio la loro posizione. L’iva si aumenta o no? E se no, come è augurabile che faccia anche un esecutivo di transizion­e, di scopo, non direttamen­te sostenuto da loro, dove trovare tutti quei soldi? La tabella programmat­ica del Def Padoan la lascerà ovviamente vuota. Sarebbe interessan­te che i vincitori cominciass­ero a riempirla.

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