1935 - 2018
Piero Ostellino, il liberale puro (e combattivo)
Di Piero Ostellino probabilmente ricorderemo che è stato un grande inviato, editorialista, corrispondente, nonché direttore del Corriere della Sera. Ma penso di non fargli torto se dico che il momento più intenso, decisivo per la sua vita, fu quello del biennio tra il 1963 e il 1964, quando a Torino fondò prima il Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi e poi la rivista Biblioteca della Libertà. Torino fu per Ostellino, che era nato a Venezia da genitori piemontesi, la città in cui si laureò avendo come relatore e correlatore due maestri del calibro di Alessandro Passerin d’entrèves e Norberto Bobbio.
Era una personalità forte Piero Ostellino, scomparso all’età di 82 anni: giornalista e uomo di cultura, direttore del «Corriere della Sera» tra il giugno 1984 e il febbraio 1987, si distingueva per spirito polemico tra i sostenitori del pensiero liberale. Il suo punto di riferimento filosofico era la scuola illuminista scozzese, di cui apprezzava particolarmente la fede nell’individuo e la consapevolezza dell’imperfezione umana. Diffidava invece dell’illuminismo francese e della sua tipica mentalità «geometrica», che aveva prodotto l’intransigenza giacobina e il Terrore rivoluzionario.
Nato a Venezia il 9 ottobre 1935, Ostellino si era laureato in Scienze politiche all’università di Torino. Nella città piemontese, all’inizio degli anni Sessanta, aveva partecipato molto giovane con un gruppo di imprenditori e intellettuali, tra cui Fulvio Guerrini, alla fondazione del Centro di ricerca Luigi Einaudi e della rivista ad esso collegata, «Biblioteca della Libertà»: due importanti oasi di studio, ricerca e riflessione a presidio dei valori occidentali.
Penna colta e spesso acuminata, Ostellino aveva intrapreso la carriera giornalistica molto giovane ed era approdato al «Corriere della Sera» nel 1967 per rimanervi quasi cinquant’anni. Ben presto aveva fatto valere le sue doti e nel 1973 era diventato corrispondente da Mosca, durante l’epoca brezneviana: l’urss appariva allora al culmine della sua potenza, ma covava i germi del successivo sfacelo. Mai tentato da indulgenze verso l’ideologia comunista o il sistema sovietico, Ostellino si era tuttavia accostato a quella realtà con spirito laico, cercando di individuare i meccanismi concreti che muovevano la società collettivista e regolavano la vita dei suoi cittadini, senza lasciarsi guidare dai pregiudizi né tanto meno influenzare dalla propaganda del regime. Ne era scaturito un libro di notevole successo, Vivere in Russia (Rizzoli, 1977).
Dopo l’urss era venuta nel 1979 la Cina del dopo Mao, avviata verso le riforme radicali promosse da Deng Xiaoping, che Ostellino aveva seguito in presa diretta a Pechino con attenzione e curiosità. Anche da quel soggiorno aveva tratto un saggio, Vivere in Cina (Rizzoli, 1981). Quindi era tornato a occuparsi del mondo sovietico, nel quale si avvertivano con sempre maggiore chiarezza i segni della stagnazione pregorbacioviana, con il volume In che cosa credono i russi? (Longanesi, 1982).
Terminata l’esperienza di corrispondente dall’estero, nel 1984 Ostellino era giunto alla guida del quotidiano di via Solferino e vi era rimasto per quattro anni, in una fase di significativa ripresa del nostro Paese, dopo le difficoltà economiche e il sangue versato nel decennio precedente, ma nella quale già si intravedevano i sintomi della crisi che in seguito avrebbe determinato la disgregazione degli equilibri politici tradizionali. Crisi della quale il direttore del «Corriere», pur apprezzando il dinamismo del governo guidato allora da Bettino Craxi, aveva colto le avvisaglie, convinto com’era che senza una rivoluzione liberale, fondata sulla competizione aperta in ogni settore, l’italia corresse rischi molto seri. Spesso sotto la sua direzione il «Corriere» era stato al centro di aspre discussioni, come quella provocata nel gennaio 1987 dallo scrittore siciliano Leonardo Sciascia con il famoso intervento sui «professionisti dell’antimafia».
Quando poi la partitocrazia si era inabissata con l’inchiesta Mani pulite, Ostellino, non più direttore ma sempre commentatore autorevole del «Corriere», aveva osservato con preoccupazione il fallimento di ogni tentativo riformatore. Nei suoi editoriali e attraverso la rubrica settimanale «Il dubbio» registrava regolarmente, a volte con amaro sarcasmo, l’incoerenza di forze e di leader che evocavano i valori liberali, ma si dimostravano, a destra come a sinistra, del tutto incapaci di praticarli.
Lo angustiava soprattutto la permanenza di una logica dirigista e corporativa, assistenzialista e autoritaria, che considerava piombo nelle ali dell’italia. Prendeva di mira con assiduità anche gli eccessi del giustizialismo, le frequenti intromissioni in campo politico di alcuni esponenti della magistratura: gli appariva un grave pericolo compromettere le garanzie processuali in nome di un’esigenza di moralizzazione. A tal proposito, da appassionato juventino, ovviamente non aveva gradito per nulla Calciopoli. Oltre che per i bianconeri, faceva il tifo per il cittadino spremuto e angariato, tanto che non esitò a intitolare Lo Stato canaglia un libro di denuncia edito da Rizzoli nel 2009.
Anche dopo aver lasciato il «Corriere della Sera» per scrivere sul «Giornale», nel 2015, Ostellino continuava a sognare un’italia liberale che assomigliasse di più alle democrazie anglosassoni, davvero rispettosa dei diritti individuali. Purtroppo non ha potuto vederla.