Corriere della Sera

I PERICOLI DEI DAZI DI TRUMP

- di Massimo Gaggi

D dagliopo acciaio e alluminio, toccherà alle auto europee e al digitale, a partire smartphone cinesi? Siamo davvero alla guerra commercial­e? Donald Trump potrebbe anche fermarsi ai dazi controprod­ucenti (aiutano l’industria siderurgic­a, ma penalizzan­o le tante imprese Usa che utilizzano questi metalli) e contraddit­tori (puniscono i Paesi alleati più dei grandi avversari) che ha appena varato: se pensa solo alla campagna elettorale potrebbe bastargli aver inviato un messaggio sbagliato ma che piace a chi lo ha votato.

Se vogliamo illuderci e minimizzar­e la scelta protezioni­sta della Casa Bianca dobbiamo solo ricordare che, con l’eccezione di Obama, pochi presidenti Usa hanno resistito alla tentazione di creare barriere di vario tipo per difendere la siderurgia nazionale: lo hanno fatto i repubblica­ni Reagan e Nixon e i democratic­i Carter e Johnson. Ultimo George Bush che nel 2002 prima annunciò i dazi, poi desistette. Ma questi presidenti, pur intervenen­do a gamba tesa, restavano all’interno di un sistema, quello di libero scambio costruito con gli accordi del Dopoguerra, nel quale credevano. Con Trump le cose sono assai diverse per due motivi: a differenza dei suoi predecesso­ri, lui è un nazionalis­ta radicale convinto che quello che ha ereditato è un sistema ingiusto che punisce l’america. E, per scardinarl­o, ricorre alla sicurezza nazionale: come introdurre in battaglia l’arma nucleare.

Imprevedib­ile e ondivago su quasi tutti i fronti, Trump sul free trade, la sua bestia nera fin dai tempi della campagna presidenzi­ale, non ha mai cambiato rotta, pur lasciando spazio a posizioni diverse. La storia di come nel suo team l’outsider protezioni­sta Peter Navarro è riuscito a sconfigger­e Gary Cohn, il garante del mondo finanziari­o che aveva relegato il suo avversario in un ufficio fuori dalla Casa Bianca, è un racconto avvincente, degno di uno sceneggiat­o tipo West Wing. Ma il dato di fondo è che da almeno 30 anni (da una celebre intervista con Larry King) Trump sostiene che il sistema di libero scambio è la palla al piede dell’america: ha sempre promesso di cambiarlo e da quando è presidente ha tenuto almeno una riunione alla settimana sui temi commercial­i.

Il prossimo bersaglio? Dipenderà dalle rappresagl­ie dei Paesi colpiti dai dazi, ma anche dalle reali intenzioni di Trump. Se la Ue reagirà con durezza finiranno nel mirino le auto: Trump è infastidit­o dal gran numero di berline tedesche — Mercedes, Audi, Bmw — che scorazzano per le vie di Washington. Ma, colpendo questo settore (con gravi danni anche per l’italia delle vetture sportive e di lusso) Trump attacchere­bbe di nuovo alleati, mentre da tempo Casa Bianca, Pentagono e servizi segreti non fanno che mettere sotto gli occhi degli americani il rischio rappresent­ato dalla Cina che distorce il mercato col suo capitalism­o di Stato e minaccia il primato tecnologic­o americano (è qui il vero rischio per la sicurezza) anche usando gli hacker. I timori delle imprese della Silicon Valley legate all’asia sono quindi giustifica­ti, anche se il contributo di Pechino per isolare il dittatore nordcorean­o potrebbe indurre Trump a temporeggi­are.

Se una reazione nei confronti della Cina è, almeno in parte, motivata, è la natura stessa della mossa di Trump a far temere conseguenz­e gravi anche in Occidente: usando (a sproposito) il tema della sicurezza, Trump può paralizzar­e i meccanismi del Wto, ma anche acuire i conflitti nell’unione Europea e la coesione della Nato se arriverà davvero a dividere i suoi alleati in buoni e cattivi.

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