I PERICOLI DEI DAZI DI TRUMP
D dagliopo acciaio e alluminio, toccherà alle auto europee e al digitale, a partire smartphone cinesi? Siamo davvero alla guerra commerciale? Donald Trump potrebbe anche fermarsi ai dazi controproducenti (aiutano l’industria siderurgica, ma penalizzano le tante imprese Usa che utilizzano questi metalli) e contraddittori (puniscono i Paesi alleati più dei grandi avversari) che ha appena varato: se pensa solo alla campagna elettorale potrebbe bastargli aver inviato un messaggio sbagliato ma che piace a chi lo ha votato.
Se vogliamo illuderci e minimizzare la scelta protezionista della Casa Bianca dobbiamo solo ricordare che, con l’eccezione di Obama, pochi presidenti Usa hanno resistito alla tentazione di creare barriere di vario tipo per difendere la siderurgia nazionale: lo hanno fatto i repubblicani Reagan e Nixon e i democratici Carter e Johnson. Ultimo George Bush che nel 2002 prima annunciò i dazi, poi desistette. Ma questi presidenti, pur intervenendo a gamba tesa, restavano all’interno di un sistema, quello di libero scambio costruito con gli accordi del Dopoguerra, nel quale credevano. Con Trump le cose sono assai diverse per due motivi: a differenza dei suoi predecessori, lui è un nazionalista radicale convinto che quello che ha ereditato è un sistema ingiusto che punisce l’america. E, per scardinarlo, ricorre alla sicurezza nazionale: come introdurre in battaglia l’arma nucleare.
Imprevedibile e ondivago su quasi tutti i fronti, Trump sul free trade, la sua bestia nera fin dai tempi della campagna presidenziale, non ha mai cambiato rotta, pur lasciando spazio a posizioni diverse. La storia di come nel suo team l’outsider protezionista Peter Navarro è riuscito a sconfiggere Gary Cohn, il garante del mondo finanziario che aveva relegato il suo avversario in un ufficio fuori dalla Casa Bianca, è un racconto avvincente, degno di uno sceneggiato tipo West Wing. Ma il dato di fondo è che da almeno 30 anni (da una celebre intervista con Larry King) Trump sostiene che il sistema di libero scambio è la palla al piede dell’america: ha sempre promesso di cambiarlo e da quando è presidente ha tenuto almeno una riunione alla settimana sui temi commerciali.
Il prossimo bersaglio? Dipenderà dalle rappresaglie dei Paesi colpiti dai dazi, ma anche dalle reali intenzioni di Trump. Se la Ue reagirà con durezza finiranno nel mirino le auto: Trump è infastidito dal gran numero di berline tedesche — Mercedes, Audi, Bmw — che scorazzano per le vie di Washington. Ma, colpendo questo settore (con gravi danni anche per l’italia delle vetture sportive e di lusso) Trump attaccherebbe di nuovo alleati, mentre da tempo Casa Bianca, Pentagono e servizi segreti non fanno che mettere sotto gli occhi degli americani il rischio rappresentato dalla Cina che distorce il mercato col suo capitalismo di Stato e minaccia il primato tecnologico americano (è qui il vero rischio per la sicurezza) anche usando gli hacker. I timori delle imprese della Silicon Valley legate all’asia sono quindi giustificati, anche se il contributo di Pechino per isolare il dittatore nordcoreano potrebbe indurre Trump a temporeggiare.
Se una reazione nei confronti della Cina è, almeno in parte, motivata, è la natura stessa della mossa di Trump a far temere conseguenze gravi anche in Occidente: usando (a sproposito) il tema della sicurezza, Trump può paralizzare i meccanismi del Wto, ma anche acuire i conflitti nell’unione Europea e la coesione della Nato se arriverà davvero a dividere i suoi alleati in buoni e cattivi.