LA COMMISSIONE EUROPEA DICHIARA GUERRA ALLA «DISINFORMAZIONE»
Il primo punto sul quale ci siamo trovati tutti d’accordo, nel cuore dell’inverno, è che bisognava smettere di parlare di «fake news». Quel termine ormai era stato preso in ostaggio dai politici, non solo Donald Trump, che lo usano come una clava sulla testa degli avversari. Il problema non sono le «fake news», è la «disinformazione»: quel flusso di notizie false, distorte, parziali, sempre messe in giro soprattutto sui social network o sulle piattaforme di messaggi per distruggere i nemici o semplicemente per guadagnare denaro. La Commissione Ue aveva invitato 37 persone da molti Paesi e diversi settori della società per preparare «raccomandazioni» in vista delle elezioni europee fra quindici mesi. L’obiettivo era cercare di limitare la proliferazione di falsi profili su Facebook o Twitter capaci di distorcere il dibattito, com’era accaduto nel 2016 negli Stati Uniti. Non conoscevo quasi nessuno fra gli altri componenti. Le grandi piattaforme digitali — Facebook e Twitter, poi Google e Mozilla Firefox — avevano mandato i loro rappresentanti anche perché percepivano che rischiavano di finire sotto accusa e sotto pressione. Lo stesso ha fatto l’organizzazione europea dei consumatori, Beuc, perché capiva che questa era un’occasione per mettere pressione sul Big Tech. C’erano poi i delegati delle grandi reti tv del mondo e altri. Non è stato facile. Non solo, ma anche, per il grande potere di lobby del Big Tech. Google per esempio finanzia il Reuters Institute for International Journalism di Oxford (presente nel gruppo) o una cattedra del Collegio d’europa. Alla fine ci siamo messi d’accordo su impegni di buona condotta, ma con un artiglio nascosto nell’ovatta: se non basta, la Commissione Ue è chiamata a usare tutti i suoi poteri Antitrust contro il Big Tech.