La letteratura spacca la vita Ma poi anche i cocci sono storie
Annalena Benini ha raccolto le sue conversazioni con dieci autori in un volume in uscita oggi per Rizzoli
Alice Munro, bruciata dal fuoco della scrittura che le divampava dentro, non temeva «le cose infrante lasciate per terra», inevitabili conseguenze umane di una vocazione crudelmente incapace di compromessi. «La figlia di due anni — racconta Annalena Benini nella sua introduzione a La scrittura o la vita in uscita per Rizzoli — le andava incontro mentre lei stava alla macchina da scrivere, e Alice con una mano la scansava e con l’altra continuava a battere» i tasti. Lei stessa non poteva non ammettere, commentando questa scena: «Ero una giovane donna spietata». La figlia scansata certamente sarà stata d’accordo con questa autovalutazione, ma Annalena Benini ha preso spunto dall’ossessione che dominava Munro, assieme a Marina Cvetaeva, Virginia Woolf, Natalia Ginzburg e a tanti altri, per chiedere a dieci scrittrici e scrittori italiani che cosa della «vita» abbiano veramente sacrificato per consacrarsi alla «scrittura», se hanno una vocazione così esclusiva o almeno paragonabile a quella della Munro, se un fuoco li consuma dentro, se hanno patito fallimenti, se hanno conosciuto il dolore di libri di cui «nessuno si è accorto», se riescono con coraggio a dare un quadro spietato di sé, se possono riconoscersi nel gesto feroce di Alice Munro o se invece questa ossessione per la scrittura sia solo un consunto topos letterario, un autoritratto quasi eroicizzante.
Con paziente arte maieutica, Benini ha stanato, in ordine di apparizione, Sandro Veronesi, Michele Mari, Valeria Parrella, Domenico Starnone, Francesco Piccolo, Patrizia Cavalli, Edoardo Albinati, Melania Mazzucco, Alessandro Piperno, Walter Siti e li ha sottoposti a lunghe interviste, anch’esse a loro modo «spietate», molto somiglianti a quelle, pregevoli tasselli di letteratura in quanto tali, che appaiono sulla «Paris Review».
E così i dieci scrittori e scrittrici si raccontano, non sfuggono alle obiezioni ironiche di Annalena Benini quando si prendono un po’ troppo sul serio o quando sono messi alle strette, o non riescono a sorvolare su ciò che nella vita li ha avviliti e fatti soffrire per poi sublimarlo e rappresentarlo nella scrittura. O quando vivono «la fissazione e l’impazzimento che hanno conseguenze comiche». Per esempio: «“Ale, tu non sei Flaubert!”, ha detto ad Alessandro Piperno la sua compagna, quando lui non smetteva di chiedersi che cosa avrebbe fatto Flaubert al posto suo». O la giovane Patrizia Cavalli che, per paura di un giudizio negativo, non aveva il coraggio di dare a Elsa Morante le poesie che lei le aveva chiesto in lettura e quindi ne scrisse di nuove per compiacere la grande scrittrice di cui aveva somma soggezione. E quando la Morante le telefonò per dirle: «Ho guardato il tuo libro e penso che dovrebbe intitolarsi Le mie poesie non cambieranno il mondo, ti va bene?», lei ha risposto: «Va benissimo. Ma l’avrei detto di qualunque titolo».
E le coincidenze, e le famiglie, e le ossessioni. Sandro Veronesi racconta che quando era alle prime armi a Prato, un po’ si vergognava di definirsi scrittore e se gli chiedevano che mestiere facesse, lui rispondeva: «L’oftalmologo». E anche del fatto che, anni dopo, «io mi dovevo risarcire di quell’esperienza sconvolgente di veder morire una madre tra le braccia». Un momento solenne che Veronesi aveva rischiato di perdere perché quella mattina desiderava fortemente un cappuccino con la doppia schiuma e non avrebbe visto la madre morire tra le sue braccia se si fosse fermato a bere quel cappuccino, ma all’ultimo aveva girato il volante ed era andato di corsa dalla madre, e chissà per quale oscuro istinto aveva deciso all’ultimo di rinunciare al fatale cappuccino con doppia schiuma.
Francesco Piccolo invece parla della sua determinazione nella rinuncia quotidiana a tante cose della vita pur di obbedire ogni giorno agli imperativi del suo lavoro di scrittore, come a risarcire quei tempi in cui «a Caserta scrivevo vergognandomi di scrivere». E doveva recuperare il tempo perduto e allora cominciò a non andare più in vacanza per leggere i libri che non aveva ancora letto e con gli amici di Caserta però non diceva «devo leggere Proust» ma «non ho soldi», «devo aiutare mia madre». E anche oggi si sente sempre «insufficiente» con le persone della vita: «So di avere questo cu- betto di ghiaccio nel cuore, che davanti a ogni cosa o a ogni persona e a ogni situazione mi fa dire soprattutto: “Scrivi”».
E poi c’è Valeria Parrella che pensa quotidianamente appunti che però, dice, «non prendo quasi mai»: ma «quando sto davanti al computer, il non aver preso appunti mi dà un filtro di essenzialità, perché se mi dimentico delle cose, vuol dire che non sono essenziali, e se non sono state essenziali per me perché dovrebbero esserlo per un lettore?». Annalena Benini lascia che Edoardo Albinati confessi la sua disperazione quando nella vastità del suo monumentale La scuola cattolica, «posseduto dalla sensazione quasi fisica del fallimento», sembrava perduto «il bandolo della matassa» e se non fosse stato per l’editore Rizzoli «che negli ultimi due anni mi ha incalzato, costringendomi a chiudere, a montare, a dare una forma compiuta a quel flusso di parole», la disillusione avrebbe avuto il sopravvento. E lascia che Melania Mazzucco racconti del nonno che arrivando dodicenne emigrante negli Stati Uniti dovette spogliarsi a Ellis Island e quel sentimento di «umiliazione», di «inermità», «vale anche per quello che racconto di me».
Come Domenico Starnone, che sente ed esprime attraverso la sua scrittura il dolore per i talenti buttati via, la figura di suo padre: «La figura di un artista di genio che però, per origine, per carattere e ostacoli ambientali, per il lavoro ufficiale che faceva a pugni con le sue aspirazioni, non è riuscito a realizzarsi». Questa, dice Starnone,
Visti da vicinissimo Riscatti personali e familiari, ossessioni e vergogne esistenziali nell’officina di chi scrive
è «l’unica cosa che mi interessa davvero raccontare». Come Walter Siti che rielabora attraverso la sua scrittura l’inarginabile ostinazione a primeggiare negli studi in una famiglia che non viveva la disinvoltura degli ambienti intellettuali, ma anche un omaggio continuo alla figura grande e magica della madre. O la terribile severità del padre che ha condizionato tutta l’attività intellettuale e il tipo di scrittura di Michele Mari. O Alessandro Piperno che racconta di patire la «sindrome dell’impostore», con il suo «atteggiamento guardingo e circospetto di un rabbino di Cracovia nel 1939». Confessioni e debolezze che Annalena Benini cattura e restituisce al lettore insieme a un elenco, «in ordine illogico», dei libri citati dalle sue scrittrici e dai suoi scrittori: «Una lista ardente di quello che serve per vivere, e per scrivere».