Primo a West Point e schiacciasassi, la sua diplomazia sarà «muscolare»
Il meno che si possa dire è che con Mike Pompeo a capo del Dipartimento di Stato la politica estera americana diventerà ancor più muscolare: dura col grande avversario cinese (con strumenti politici e sanzioni commerciali, come è emerso già ieri), ma anche rudemente sbrigativa con gli alleati europei. Primo banco di prova l’accordo nucleare con l’iran siglato da Obama, ma sostenuto attivamente anche da tutti i Paesi Ue, oltre che da Russia e Cina: Trump ha picconato ma non ancora demolito un’intesa sempre difesa da Rex Tillerson. Cadetto, soldato, schiacciasassi politico come portabandiera della destra radicale dei Tea Party in Congresso e, infine, capo dei servizi di spionaggio, Pompeo si è sempre detto deciso a rottamare un accordo con Teheran che, al pari di Trump, considera disastroso. Negli ultimi 14 mesi ha taciuto su questo, ma solo perché il suo ruolo nella Cia gli imponeva maggiore discrezione. È improbabile che abbia modificato il suo giudizio, anche se, chiamato ad analizzare la realtà con le lenti dell’intelligence, ha potuto apprezzare alcuni vantaggi che quell’intesa certamente comporta rispetto alla prospettiva di un rapido completamento del programma di armamento atomico della Repubblica degli ayatollah. La resa dei conti con la verifica dell’accordo, a maggio. Verrebbe da dire che con questo americano del Kansas di origini campane figlio di una famiglia di militari, primo del suo corso all’accademia di West Point, per 5 anni ufficiale della cavalleria meccanizzata schierata dall’esercito lungo la Cortina di ferro prima di passare alla carriera congressuale, la politica dell’amministrazione Trump appare sempre più militarizzata. Ma la verità è
che i generali che avrebbero dovuto mettere ordine alla Casa Bianca e nella politica estera, il capo di gabinetto John Kelly e il consigliere per la Sicurezza nazionale HR Mcmaster, faticano a tenere a bada Trump con le sue scelte umorali e zigzaganti. Mcmaster, da tempo esasperato e orientato a uscire di scena, potrebbe presto essere sostituito. Si parla di un successore non militare ma certamente più radicale come John Bolton. Quanto al capo del Pentagono, James Mattis, potrebbe essere indebolito dall’uscita di scena di Tillerson col quale si era trovato spesso in sintonia nei tentativi di smussare le sortite più brusche di Trump e di rassicurare gli alleati europei della Nato. Più corretto, insomma, parlare di una politica più muscolare: una prospettiva comunque allarmante. Eppure negli ambienti diplomatici europei di Washington il cambio della guardia Tillerson-pompeo è accolto quasi con sollievo. Era evidente da tempo che con l’ex ad della Exxon a capo della diplomazia, la politica estera Usa era paralizzata: ambasciatori e le migliori intelligenze del Dipartimento di Stato in fuga, intere divisioni senza guida, il presidente e il suo ministro in disaccordo su tutto, dalla Russia alla tutela ambientale, all’iran. Fino al dialogo col dittatore nordcoreano avviato da Trump all’insaputa di Tillerson, in viaggio in Africa. Con Pompeo viene meno un argine, visto che lui appare in sintonia con Trump quasi su tutto. Ma finirà anche la confusione del doppio binario mentre Pompeo, di cui nessuno mette in discussione le capacità professionali, dovrebbe riuscire a riorganizzare e a ridare un ruolo al Dipartimento di Stato. Lo ha fatto anche alla Cia dove, pur non rinunciando a seguire le sue idee di conservatore radicale, si è guadagnato stima e rispetto della struttura. Assecondando Trump ma senza mai consentire a lui o ad altri del suo team di mettere il naso negli affari dell’agenzia.
Le origini italiane
Americano del Kansas, di origini campane, si è guadagnato stima e rispetto dei dipendenti dell’agenzia