Il futuro dei Millennials A casa o sottopagati, pensione a rischio per milioni di lavoratori
Se hanno un lavoro nella maggior parte dei casi è precario, o non è quello per cui hanno studiato, non presenta prospettive di miglioramento e non è retribuito adeguatamente. E, spesso, lavorare potrebbe non essere sufficiente, facendo correre il rischio di trovarsi sulla soglia della povertà. Spietata e allarmante la fotografia scattata da Censis e Confcooperative ai «millennials» italiani, le nuove generazioni nate tra il 1980 e il 2000. Giovani tra i 18 e i 34 anni che «rischiano di alimentare entro il 2050 le fila dei poveri».
Nel focus «Millennials, lavoro povero e pensioni: quale futuro?» emerge infatti uno scenario preoccupante per il futuro delle nuove generazioni, tra lavori sempre più precari e discontinui e quindi contribuiti pensionistici (quando ci sono) sempre più bassi. Nella fascia 25-34 anni gli occupati sono poco più di 4 milioni. A rischio povertà sono quasi in sei milioni (5,7), tra working poor (2,7 milioni con remunerazioni sempre più basse e redditi al di sotto della soglia di povertà) e gli ormai noti neet (3 milioni), coloro che non hanno un’occupazione, non studiano e non stanno seguendo un corso di formazione. «Una bomba sociale - dice Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative - che va disinnescata: serve un patto intergenerazionale che garantisca ai figli le stesse opportunità dei padri».
Perché, viste le premesse, il futuro dei figli si annuncia ben diverso da quello dei padri. In Italia, nel 2016, nella fascia 20-29 anni, il 12% dei lavoratori è a rischio povertà, due punti sopra la media europea con la percentuale più alta in Romania (21,1%) e quella più bassa in Repubblica Ceca (2,3). Working poor che si accontentano di qualsiasi tipo di impiego pur di entrare nel mondo del lavoro, che sono sottopagati e che non riusciranno mai ad accantonare abbastanza per gli anni della pensione. Non solo. «Lo slittamento verso il basso delle remunerazioni di molte categorie professionali - si legge nel rapporto - per i giovani trova, in assenza di minimi salariali, un ulteriore fattore di criticità», tanto da mettere a rischio «la sostenibilità a lungo termine dei sistemi di welfare». Basti pensare che il 4,2% degli occupati tra 25-34 anni è sottoccupato in un lavoro di «bassa qualità»; il 16% ha un part-time involontario con poche ore di impiego rispetto a quante potrebbe farne; il 10% ha un’occupazione non qualificata.
L’aumento dell’età pensionabile poi rende il ricambio generazionale ancora più complicato. Per il 46,3% dei giovani tra i 25 e i 34 anni è la causa principale della disoccupazione giovanile. Al secondo posto, però, il 38,8% indica l’inefficacia delle politiche attive del lavoro.
Forse, dice ancora Gardini, «il Reddito di inclusione che, nel 2020 arriverà a 2,7 miliardi di euro, fornirà delle prime risposte», ma intanto «vanno recuperati 3 milioni di neet: rischiamo di perdere un’intera generazione». Il fenomeno dei «né studio-né lavoro» italiani vede la maggioranza dei neet nel Mezzogiorno: quasi 1 milione e 200mila giovani di cui quasi 700mila solo tra Sicilia (317mila) e Campania (360mila) con un tasso di inattività che supera il 41%. Ma anche la Lombardia ne conta oltre 200mila, seguita dai 181mila del Lazio.
E Confcooperative ipotizza un confronto tra la pensione di un padre e quella futura di suo figlio: il primo, dopo 38 anni di contributi e l’uscita dal lavoro a 65 anni, può contare su una pensione pari all’84,3% dell’ultima retribuzione. Il secondo, invece, date quasi le stesse condizioni ma con l’uscita dal lavoro a 67 anni, può attendersi solo il 69,7%: il 14,6% in meno del padre. Ma, riconosce lo studio, «questo nella migliore delle ipotesi», perché nella realtà invece «rischia di andare molto peggio».
Nella fascia 25-34 anni gli occupati sono poco più di 4 milioni. Nel 2016, nella fascia 20-29 anni, il 12% dei lavoratori è a rischio povertà