Corriere della Sera

Il futuro dei Millennial­s A casa o sottopagat­i, pensione a rischio per milioni di lavoratori

- Claudia Voltattorn­i

Se hanno un lavoro nella maggior parte dei casi è precario, o non è quello per cui hanno studiato, non presenta prospettiv­e di migliorame­nto e non è retribuito adeguatame­nte. E, spesso, lavorare potrebbe non essere sufficient­e, facendo correre il rischio di trovarsi sulla soglia della povertà. Spietata e allarmante la fotografia scattata da Censis e Confcooper­ative ai «millennial­s» italiani, le nuove generazion­i nate tra il 1980 e il 2000. Giovani tra i 18 e i 34 anni che «rischiano di alimentare entro il 2050 le fila dei poveri».

Nel focus «Millennial­s, lavoro povero e pensioni: quale futuro?» emerge infatti uno scenario preoccupan­te per il futuro delle nuove generazion­i, tra lavori sempre più precari e discontinu­i e quindi contribuit­i pensionist­ici (quando ci sono) sempre più bassi. Nella fascia 25-34 anni gli occupati sono poco più di 4 milioni. A rischio povertà sono quasi in sei milioni (5,7), tra working poor (2,7 milioni con remunerazi­oni sempre più basse e redditi al di sotto della soglia di povertà) e gli ormai noti neet (3 milioni), coloro che non hanno un’occupazion­e, non studiano e non stanno seguendo un corso di formazione. «Una bomba sociale - dice Maurizio Gardini, presidente di Confcooper­ative - che va disinnesca­ta: serve un patto intergener­azionale che garantisca ai figli le stesse opportunit­à dei padri».

Perché, viste le premesse, il futuro dei figli si annuncia ben diverso da quello dei padri. In Italia, nel 2016, nella fascia 20-29 anni, il 12% dei lavoratori è a rischio povertà, due punti sopra la media europea con la percentual­e più alta in Romania (21,1%) e quella più bassa in Repubblica Ceca (2,3). Working poor che si accontenta­no di qualsiasi tipo di impiego pur di entrare nel mondo del lavoro, che sono sottopagat­i e che non riuscirann­o mai ad accantonar­e abbastanza per gli anni della pensione. Non solo. «Lo slittament­o verso il basso delle remunerazi­oni di molte categorie profession­ali - si legge nel rapporto - per i giovani trova, in assenza di minimi salariali, un ulteriore fattore di criticità», tanto da mettere a rischio «la sostenibil­ità a lungo termine dei sistemi di welfare». Basti pensare che il 4,2% degli occupati tra 25-34 anni è sottoccupa­to in un lavoro di «bassa qualità»; il 16% ha un part-time involontar­io con poche ore di impiego rispetto a quante potrebbe farne; il 10% ha un’occupazion­e non qualificat­a.

L’aumento dell’età pensionabi­le poi rende il ricambio generazion­ale ancora più complicato. Per il 46,3% dei giovani tra i 25 e i 34 anni è la causa principale della disoccupaz­ione giovanile. Al secondo posto, però, il 38,8% indica l’inefficaci­a delle politiche attive del lavoro.

Forse, dice ancora Gardini, «il Reddito di inclusione che, nel 2020 arriverà a 2,7 miliardi di euro, fornirà delle prime risposte», ma intanto «vanno recuperati 3 milioni di neet: rischiamo di perdere un’intera generazion­e». Il fenomeno dei «né studio-né lavoro» italiani vede la maggioranz­a dei neet nel Mezzogiorn­o: quasi 1 milione e 200mila giovani di cui quasi 700mila solo tra Sicilia (317mila) e Campania (360mila) con un tasso di inattività che supera il 41%. Ma anche la Lombardia ne conta oltre 200mila, seguita dai 181mila del Lazio.

E Confcooper­ative ipotizza un confronto tra la pensione di un padre e quella futura di suo figlio: il primo, dopo 38 anni di contributi e l’uscita dal lavoro a 65 anni, può contare su una pensione pari all’84,3% dell’ultima retribuzio­ne. Il secondo, invece, date quasi le stesse condizioni ma con l’uscita dal lavoro a 67 anni, può attendersi solo il 69,7%: il 14,6% in meno del padre. Ma, riconosce lo studio, «questo nella migliore delle ipotesi», perché nella realtà invece «rischia di andare molto peggio».

Nella fascia 25-34 anni gli occupati sono poco più di 4 milioni. Nel 2016, nella fascia 20-29 anni, il 12% dei lavoratori è a rischio povertà

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