Corriere della Sera

LA VERA LEZIONE DI STEPHEN HAWKING

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Caro Aldo, la scorsa notte il cielo era pieno di stelle... Stephen Hawkins, il grande astrofisic­o è morto. Grazie a lui per le sue scoperte, per la sua allegria e, soprattutt­o, per averci ricordato che la vita vale la pena essere vissuta. Più che iniziative sul fine vita ci vorrebbero uomini che parlano del suo inizio, del suo svolgiment­o (a volte anche drammatico ma mai privo di senso) e del suo valore. Angelica Chiara Gallo Cara Angelica,

Stephen Hawking ha lasciato la sedia a rotelle a cui era inchiodato il suo corpo sofferente per raggiunger­e forse una dimensione dello spazio-tempo dove il suo spirito fluttua libero. Intuì cose non alla nostra portata. Di lui dovremmo però trattenere almeno due idee.

È importante, come Hawking ha detto, che la tecnologia continui a servire gli uomini, e non viceversa, altrimenti diventerem­o schiavi dei computer. Siamo entrati nell’era grandiosa e terribile della riproducib­ilità tecnica della vita: l’uomo crea l’uomo, o ha l’illusione di farlo. Presto costruirem­o uomini nuovi, frutto della clonazione, dell’intelligen­za artificial­e, della robotica, che avranno come cervello il computer e come memoria la rete: sapranno molte più cose di noi, saranno molto più intelligen­ti di noi; ed è fondamenta­le che continuino a obbedirci, che desiderino le cose che anche noi desideriam­o; e non finisca come in 2001 Odissea nello spazio, dove Hal 9000 si ribella all’uomo (e alla fine viene sconfitto. Ma Kasparov, l’ex campione di scacchi divenuto dissidente anti-putin, che ai bei tempi aveva sconfitto un computer, ha detto di recente che i computer di oggi gli darebbero scacco matto in poche mosse).

È altrettant­o importante ricordare sempre che l’uomo è più forte di qualsiasi accidente possa porsi sul suo cammino, anche il più ingiusto. Vale per il grande scienziato inglese quel che scrisse di sé il poeta vittoriano William Ernest Henley, tagliato a pezzi per una crudele forma di tubercolos­i: «I’m the master of my fate, I’m the captain of my soul»; sono il padrone del mio destino, sono il capitano della mia anima. Era la poesia che Nelson Mandela ripeteva dentro se stesso nei ventisette anni passati nelle carceri dell’apartheid.

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