Giovanni Testori, il furore gentile di uno «scrivano lombardo»
A venticinque anni dalla scomparsa dell’autore, poeta, regista e critico d’arte
Uno degli ultimi scritti di Giovanni Testori (1923-1993) fu la prefazione ai versi di Preparativi contro tempi migliori di Giorgio Mannacio, un poeta prestato alla Magistratura. Nessuno gliel’aveva chiesta. Testori aveva letto il dattiloscritto, gli era piaciuto e l’aveva messa giù.
Ecco, credo che in questo flash ci sia tutta la generosità di Testori, che va di pari passo con il furore, che gli faceva scintillare gli occhi («di ghiaccio», per Giorgio Bassani): un aspetto preponderante del suo carattere che, a 25 anni dalla morte, la memoria associa ad alcuni aneddoti. Scrittore, poeta, regista, critico d’arte e pittore, era anche un grandissimo attore: non tanto sul palcoscenico (che pure calcava) ma, soprattutto, nella vita. Si badi: recitava senza rendersene conto, essendo questo, in lui, qualcosa di connaturato. Furore, s’è detto: ma con «recitativo». Autentico: ma che scattava solo in presenza d’altri.
Mi viene in mente un episodio avvenuto al «Corriere», nella stanza di Giulio Nascimbeni, caporedattore della Cultura. Anni Ottanta: Testori gli porta un elzeviro. Solitamente i suoi pezzi escono nel giro di due-tre giorni, ma stavolta è già passata una settimana e non si vede nulla. Impedimenti? È facile: un anniversario da rispettare, un paio di avvenimenti di cronaca da pubblicare subito, chissà... Entrato nell’ufficio di Giulio e alzato l’indice della destra (e la voce), col suo aspetto da profeta del Vecchio Testamento, Testori dice: «Non hai ancora...». Interrompendolo, un Nascimbeni sgomento urla: «Esce domani!».
La reazione per questa «energia gentile e intimidatoria» (definizione di Natalia Aspesi) aveva una sua logica. Al «Corriere» si vociferava che gli anatemi di Testori andavano a segno. Un esempio? Nel ’61, la compagnia Morellistoppa porta sulle scene L’arialda di Testori con la regia di Visconti. Da qui, un sodalizio fortissimo fra il «regista aristocratico» e lo «scrivano lombardo», autore, fra l’altro, di un lungo saggio su Luchino («il migliore che sia mai stato scritto su di me»).
Nel ’65, escono I trionfi, poema d’amore di Testori dedicato ad A., un ragazzo bellissimo. Quando A. decide di fare l’attore di cinema, Gianni lo indirizza da Visconti. Che non sa resistere al fascino del giovane e tenta un approccio. Saputo dell’episodio, Testori telefona a Visconti e lo insulta. Poi va nella tipografia di Brescia, dove su un bancone erano allineate le pagine sul regista — composte da righe di piombo legate con lo spago — e con un braccio le spazza via, sparpagliandole per terra. Il libro non uscirà. Più avanti, l’«angelo biondo di Milano» (come Camilla Cederna aveva definito Testori sull’«espresso») si vendicherà del regista, rubandogli Alain Delon.
Ma non è ancora finita. Passato qualche anno, i rapporti fra i due intellettuali si riallacciano. Così, ai primi di marzo del ’76, Testori rimanda A. da Visconti per un provino. Anche stavolta, però, il conte cerca di sedurre il giovane. Lo scrittore è furioso: «Ti maledico, ti maledico — gli urla al telefono —. Che tu possa morire!».
Credere o non credere, fatto sta che il 17 di marzo, mentre il regista de Il Gattopardo èa Roma, la vita l’abbandona.
Ecco, nel vedere Testori adirato, a Nascimbeni era venuta in mente la fine di Visconti e, a modo suo, l’aveva scongiurata.
Gianni, si sa, era un uomo fuori dal comune. Anche nei gesti di amicizia. Personalmente ricordo un episodio abbastanza divertente. Abitando, allora, in Galleria Vittorio Emanuele, talvolta prima di uscire gli telefonavo nello studio di via Brera, per passare a prenderlo e proseguire insieme per il giornale. Un giorno, mi mostra un settimanale con in copertina un diciannovenne, vincitore in Emilia Romagna del titolo di Mister Spiaggia, o qualcosa del genere.
«Guarda, è bellissimo. Gli ho telefonato e dopodomani vado a trovarlo».
Contrariamente ad altri amici comuni e colleghi, Testori — come Pasolini e lo stesso Visconti — non faceva mistero della propria omosessualità. Lo testimoniano anche alcuni dei suoi libri: I trionfi, L’amore, Per sempre, In exitu, Verbò (sulla passione tra Verlaine e Rimbaud). «Che cosa gli dici?». «Non so».
Curioso come una bertuccia, al suo rientro mi catapulto nello studio di via Brera. «Com’è andata». «Bene. Ma la prossima volta vieni con me a Rimini. Devi conoscere la madre. Avrà sì e no trentacinque anni: ha avuto il figlio a sedici. È molto più bella del ragazzo, che è bellissimo».
Non siamo mai andati a Rimini. Successe qualcosa e Testori non ne parlò più. Rimini come Granada. «Nunca fui a Granada» («Non sono mai andato a Granada»), cantava Rafael Alberti ricordando un invito di Federico García Lorca, che non aveva potuto accettare.
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I rapporti complicati con Luchino Visconti, la generosità, il legame con il «Corriere»