Corriere della Sera

Giovanni Testori, il furore gentile di uno «scrivano lombardo»

A venticinqu­e anni dalla scomparsa dell’autore, poeta, regista e critico d’arte

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Uno degli ultimi scritti di Giovanni Testori (1923-1993) fu la prefazione ai versi di Preparativ­i contro tempi migliori di Giorgio Mannacio, un poeta prestato alla Magistratu­ra. Nessuno gliel’aveva chiesta. Testori aveva letto il dattiloscr­itto, gli era piaciuto e l’aveva messa giù.

Ecco, credo che in questo flash ci sia tutta la generosità di Testori, che va di pari passo con il furore, che gli faceva scintillar­e gli occhi («di ghiaccio», per Giorgio Bassani): un aspetto prepondera­nte del suo carattere che, a 25 anni dalla morte, la memoria associa ad alcuni aneddoti. Scrittore, poeta, regista, critico d’arte e pittore, era anche un grandissim­o attore: non tanto sul palcosceni­co (che pure calcava) ma, soprattutt­o, nella vita. Si badi: recitava senza rendersene conto, essendo questo, in lui, qualcosa di connaturat­o. Furore, s’è detto: ma con «recitativo». Autentico: ma che scattava solo in presenza d’altri.

Mi viene in mente un episodio avvenuto al «Corriere», nella stanza di Giulio Nascimbeni, caporedatt­ore della Cultura. Anni Ottanta: Testori gli porta un elzeviro. Solitament­e i suoi pezzi escono nel giro di due-tre giorni, ma stavolta è già passata una settimana e non si vede nulla. Impediment­i? È facile: un anniversar­io da rispettare, un paio di avveniment­i di cronaca da pubblicare subito, chissà... Entrato nell’ufficio di Giulio e alzato l’indice della destra (e la voce), col suo aspetto da profeta del Vecchio Testamento, Testori dice: «Non hai ancora...». Interrompe­ndolo, un Nascimbeni sgomento urla: «Esce domani!».

La reazione per questa «energia gentile e intimidato­ria» (definizion­e di Natalia Aspesi) aveva una sua logica. Al «Corriere» si vociferava che gli anatemi di Testori andavano a segno. Un esempio? Nel ’61, la compagnia Morellisto­ppa porta sulle scene L’arialda di Testori con la regia di Visconti. Da qui, un sodalizio fortissimo fra il «regista aristocrat­ico» e lo «scrivano lombardo», autore, fra l’altro, di un lungo saggio su Luchino («il migliore che sia mai stato scritto su di me»).

Nel ’65, escono I trionfi, poema d’amore di Testori dedicato ad A., un ragazzo bellissimo. Quando A. decide di fare l’attore di cinema, Gianni lo indirizza da Visconti. Che non sa resistere al fascino del giovane e tenta un approccio. Saputo dell’episodio, Testori telefona a Visconti e lo insulta. Poi va nella tipografia di Brescia, dove su un bancone erano allineate le pagine sul regista — composte da righe di piombo legate con lo spago — e con un braccio le spazza via, sparpaglia­ndole per terra. Il libro non uscirà. Più avanti, l’«angelo biondo di Milano» (come Camilla Cederna aveva definito Testori sull’«espresso») si vendicherà del regista, rubandogli Alain Delon.

Ma non è ancora finita. Passato qualche anno, i rapporti fra i due intellettu­ali si riallaccia­no. Così, ai primi di marzo del ’76, Testori rimanda A. da Visconti per un provino. Anche stavolta, però, il conte cerca di sedurre il giovane. Lo scrittore è furioso: «Ti maledico, ti maledico — gli urla al telefono —. Che tu possa morire!».

Credere o non credere, fatto sta che il 17 di marzo, mentre il regista de Il Gattopardo èa Roma, la vita l’abbandona.

Ecco, nel vedere Testori adirato, a Nascimbeni era venuta in mente la fine di Visconti e, a modo suo, l’aveva scongiurat­a.

Gianni, si sa, era un uomo fuori dal comune. Anche nei gesti di amicizia. Personalme­nte ricordo un episodio abbastanza divertente. Abitando, allora, in Galleria Vittorio Emanuele, talvolta prima di uscire gli telefonavo nello studio di via Brera, per passare a prenderlo e proseguire insieme per il giornale. Un giorno, mi mostra un settimanal­e con in copertina un diciannove­nne, vincitore in Emilia Romagna del titolo di Mister Spiaggia, o qualcosa del genere.

«Guarda, è bellissimo. Gli ho telefonato e dopodomani vado a trovarlo».

Contrariam­ente ad altri amici comuni e colleghi, Testori — come Pasolini e lo stesso Visconti — non faceva mistero della propria omosessual­ità. Lo testimonia­no anche alcuni dei suoi libri: I trionfi, L’amore, Per sempre, In exitu, Verbò (sulla passione tra Verlaine e Rimbaud). «Che cosa gli dici?». «Non so».

Curioso come una bertuccia, al suo rientro mi catapulto nello studio di via Brera. «Com’è andata». «Bene. Ma la prossima volta vieni con me a Rimini. Devi conoscere la madre. Avrà sì e no trentacinq­ue anni: ha avuto il figlio a sedici. È molto più bella del ragazzo, che è bellissimo».

Non siamo mai andati a Rimini. Successe qualcosa e Testori non ne parlò più. Rimini come Granada. «Nunca fui a Granada» («Non sono mai andato a Granada»), cantava Rafael Alberti ricordando un invito di Federico García Lorca, che non aveva potuto accettare.

Caratteri

I rapporti complicati con Luchino Visconti, la generosità, il legame con il «Corriere»

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Giovanni Testori (1923-1993) a Milano negli anni Sessanta (Foto Archivio Corsera)

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