Se la cena tra vecchi amici diventa guerra culturale
Disgraced di Ayad Akhtar, scrittore americano di origine pachistana, è una commedia che presenta non pochi problemi. È in scena all’india per la regia di Jacopo Gassmann ed è una produzione del teatro di Roma e del teatro della Tosse di Genova. Ma è anche il premio Pulitzer del 2013, il che dovrebbe essere una garanzia. Non sufficiente, però. Garanzia maggiore è che il suo regista descrive il teatro di Akhtar come «una verifica del nostro presente; esso non smette mai di rivelarci qualcosa di noi stessi». A mio avviso, non è proprio così. Tre sono le ragioni di fondo. I personaggi non hanno una sufficiente caratterizzazione psicologica (stiamo parlando di una commedia di impianto tradizionale sul tema della conflittualità che nasce dal multiculturalismo). È del tutto evidente l’elemento volontaristico: ogni personaggio ha come carattere di spicco d’appartenere a una specifica etnia, diversa da quella degli altri. È addirittura flagrante il fine didascalico, o dimostrativo, del testo. Di che si tratta?
Siamo nel cuore di Manhattan, in casa dell’avvocato Amir e di sua moglie. Emily sta ritraendo il marito ispirandosi a Velasquez: lei è americana; lui, musulmano figlio di pachistani, dice che suo padre è nato in India poco prima che gli inglesi spaccassero in due un grande paese. Per lavorare ha cambiato nome, proclamandosi indiano. I due si amano e vivono nel lusso. Nella seconda delle quattro scene ricevono la visita di una coppia di amici. L’ebreo Isaac è il gallerista che ospiterà il lavoro di Emily. Sua moglie è afroamericana. C’è dapprima un fatto: Amir ha offerto il suo sostegno a un Imam accusato di terrorismo. Nella terza scena ci sono un secondo fatto e un altro, collegato all’irresistibile impulso di Amir nei confronti dell’imam. Verrà licenziato e il suo lauto stipendio andrà (ecco i casi della vita o delle commedie) a Jory, la moglie di Isaac. Ma Jory avrà anche la ventura, rientrando nella casa di Amir, da dove era uscita per parlargli di questa per lui spiacevole vicissitudine, di vedere Emily baciarsi con il gallerista, suo marito. Apriti cielo. Amir non risparmierà alla moglie la «violenza dei mariti» musulmani nello stesso momento in cui piange per la fine del suo sogno americano, ovvero per l’essere venuta in luce la propria malafede: ha questo sogno di libertà e di tolleranza ma il Corano detta sempre la sua legge.
Ad Akhtar, Gassmann risponde con fedeltà ed eleganza: non solo quella della scenografia, che era scritta nel testo, ma quella della recitazione e dei movimenti (e cambi) di quadro: tempi, abiti, immagini di passi perduti nella folla dell’upper West Side. C’è in più un’idea che non so valutare. Potrebbe essere un eccesso di naturalismo in aiuto della debolezza dei singoli personaggi: ognuno d’essi è un attore proveniente dalla medesima etnia di chi viene interpretato. I cinque (c’è anche un nipote di Amir) sono l’eloquente e bravo Hossein Taheri, Francesco Villano, Lisa Galantini, Saba Anglana, Marouane Zotti. Disgraced
Regia di Jacopo Gassmann