Il debole Occidente
Ieri, Vladimir Putin ha vinto un’elezione scontata, senza rivali effettivi, quelli che avrebbero potuto esserci messi fuori gioco: rimarrà al potere almeno fino al 2024. Sabato, Xi Jinping è stato confermato presidente con il cento per cento dei voti dal Parlamento cinese: resterà in carica altri cinque anni ma ha tutte le possibilità di rimanere al vertice dello Stato a vita, a suo gradimento. Quella russa è una democrazia «gestita», il popolo vota e finisce lì: rieletto il capo, tutto viene regolato, senza controlli, dall’élite che ruota attorno a Putin. Quella cinese è una dittatura che ora stringe ancora di più le maglie: la possibilità di Xi di essere rieletto alla guida del Paese più e più volte è segno che anche nei ranghi alti del partito ogni dibattito tenderà a zero. Di fronte a questi due regimi, fino a pochi anni fa ci sarebbero state indignazione e protesta, soprattutto in Occidente. Oggi non è così. Putin e il modello cinese raccolgono seguaci in Africa, in America Latina, in Europa dell’est, in numerosi partiti e movimenti di Paesi democratici. Anche tra parecchi intellettuali occidentali, Mosca e Pechino vengono spesso lette con una benevolenza che passa sopra ai metodi con cui gestiscono il potere e la loro politica estera non di rado aggressiva. In questo quadro, i governi di Russia e Cina vedono un’opportunità che non avevano mai avuto: battere l’occidente in crisi e i valori della democrazia e dello Stato di diritto, stabilire un’egemonia di soft power, di modello «forte» che vince. Per la democrazia e il capitalismo liberali, che vivono un momento ciclico di debolezza, è una sfida senza precedenti recenti. Di fronte alle elezioni dei giorni scorsi a Mosca e a Pechino, Stati Uniti ed Europa hanno l’obbligo di reagire, di rinnovare un modello che ha garantito 70 anni di prosperità e di libertà. Possono farlo solo assieme.