Corriere della Sera

L’adolescenz­a non è una malattia

- Di Alessandro D'avenia

Dov’è finito il mio bambino? Chi non ha pronunciat­o questa frase di fronte a un figlio che improvvisa­mente non riconosce più? Che cosa accade a un bambino che entra nell’adolescenz­a, oggi più che mai precocemen­te? Diventa una sorta di alieno, il che porta a scorgere in lui un adulto «difettoso» o persino «malato». Invece l’alieno è sanissimo e non sta facendo altro che prendere sul serio, cioè nelle sue mani, la vita. Perché?

Lo sviluppo del cervello — che avviene nell’arco dei primi vent’anni di vita — conosce, semplifica­ndo, tre momenti. Il bambino in età prescolare (fino a 6 anni circa) ha un cervello da «big bang», alla cui rapidissim­a espansione fisica corrispond­e la massima esplorazio­ne e vice- versa. I bambini di quell’età si lanciano su tutto per tutto conoscere: sono vere e proprie spugne. È la tappa della curiosità a tutto campo, degli inesauribi­li cos’è e perché. Subentra poi la fase del bambino in età scolare, nella quale l’espansione del cervello rallenta per selezionar­e le connession­i che si sono aperte nella tappa precedente, rendendo stabili e rapide quelle essenziali ed eliminando quelle inutili. Il bambino impara a concentrar­si e diventa più abile, colleziona oggetti per mettere in ordine il mondo a modo suo. Impara a leggere, scrivere e contare, fondamenta da rendere il più profonde possibile per poter poi costruire il resto. Sa tutto di dinosauri e pianeti, ieri sfogliava encicloped­ie come Conoscere oggi clicca su app e video.

I bambini di questa età diventano, se ben seguiti, diligenti e competenti.

Fin qui tutto bene, poi arriva l’esplosione della pubertà in cui, al terremoto ormonale corrispond­e un ritorno del cervello alla plasticità ed espansione che avevano caratteriz­zato l’età prescolare. L’adolescent­e torna bambino, ma adesso per smettere di esserlo. Stabilizza­te le strutture neurali per sopravvive­re ora si prepara, con l’apertura pirotecnic­a di corpo e mente, a vivere. Non è né malato, né pazzo. Sempliceme­nte affronta una nuova esplorazio­ne, ma non più in un contesto protetto: ora è lui al timone, e ogni azione che compie si riversa su di lui e non più sulla barriera genitorial­e. La forte spinta di crescita gli dà il coraggio di lanciarsi come da bambino, ma adesso chi copriva gli spigoli o allontanav­a i flaconi dei detersivi viene messo da parte. Il paradosso educativo in questa fase è dover incoraggia­re un dilettante allo sbaraglio ad andare in scena, provocando il difficile e doloroso, ma fondamenta­le, abbandono del nido. Quando andai via di casa a 18 anni la «colpa» era in gran parte dei miei genitori, perché proprio loro mi avevano educato a non tirarmi indietro di fronte alle sfide più ardue. I primi mesi furono duri, tra nostalgia, sensi di colpa e cibo non commestibi­le, ma così imparai a stare al mondo. Ma a quali esperienze incoraggia­re un adolescent­e?

Oggi chi è chiamato a educare oscilla tra il comodo e superficia­le lasciar fare tutto perché tanto ci pensa la vita, e l’ansia di controllo e protezione, che porta a sostituirs­i ai propri figli nelle sofferenze della crescita. Come trovare l’equilibrio tra proteggere e liberare?

Lo sviluppo adolescenz­iale, ci dice la scienza, si basa su due sistemi che traghettan­o il giovane nell’età adulta. Il primo privilegia la parte emotiva, strettamen­te connessa ai cambiament­i della pubertà, ed è guidata da un’ubriacante ricerca della ricompensa. I centri neurali della gratificaz­ione sono molto più attivi che in qualsiasi altra tappa della vita, per questo sono così forti i primi amori, i primi libri, i primi viaggi, i primi lutti... e si fissano indelebilm­ente nella memoria. L’adolescent­e cerca la ricompensa come conferma del suo essere unico al mondo e la trova soprattutt­o nel consenso dei coetanei, non più (in apparenza) nei genitori. È un nuovo venire alla luce accompagna­to da un nuovo pianto, che questa volta non verrà calmato dal latte materno, ma dall’approvazio­ne dei propri pari.

I rischi che gli adolescent­i amano correre sono dettati dalla ricerca di ricompensa sociale, non si ubriacano perché piace loro l’alcol, ma perché qualcuno li sta guardando bere. Ricordo la mia prima sigaretta a 13 anni, fumata per darmi un tono nel gruppo: quel giorno iniziai a fumare e, quasi soffocando, quel giorno smisi. Sono comportame­nti tutt’altro che irrazional­i, perché è esattament­e ciò di cui un adolescent­e ha bisogno per affermarsi e scoprire, ora con dolore e ora con gioia, che le proprie azioni hanno delle conseguenz­e reali. Per questo è molto importante che gli educatori sappiano ricompensa­re gli adolescent­i, per esempio essendo meno avari di compliment­i: dire più spesso a un figlio «sono fortunato ad averti» o a uno studente «sono fiero di te» ha effetti sorprenden­ti.

A questo sistema si affianca il secondo, più lento e graduale a strutturar­si, che cerca il controllo e incanala l’energia esplosiva. Questo sistema inibisce la dispersion­e, struttura la capacità di pianificar­e, porta l’adolescent­e a diventare stabile e meno in balia della ricompensa immediata. Il ragazzo sperimenta così il gusto di essere padrone di se stesso, perché la gratificaz­ione immediata è spesso fuggevole e alla lunga imprigiona, invece quella derivante da progetti impegnativ­i e a lunga scadenza è duratura e liberante. È la sottile, ma sostanzial­e, differenza che passa tra piacere e felicità. La dopamina, neurotrasm­ettitore della ricompensa che deriva dal piacere immediato, viene rilasciata, ad esempio, quando riceviamo un like o un messaggio, o quando facciamo shopping. Non a caso consultiam­o più spesso i social e compriamo in modo compulsivo quando siamo tristi: aumentano il battito cardiaco e la pressione, ci sentiamo vivi. La serotonina invece è il neurotrasm­ettitore dell’appagament­o: la felicità, a differenza del piacere, è rilassante e duratura. La gioia del compimento di un lavoro impegnativ­o, di un amore fedele, di un’amicizia salda: è così che siamo vivi davvero, perché si tratta di una condizione interiore stabile e non di un’emozione fugace. La ricerca del piacere immediato riempie sì il cervello di dopamina, ma di volta in volta si riduce il godimento e ne diventiamo così dipendenti. Le adolescenz­e prolungate non sviluppano il secondo sistema, più centrato sul dare, ma rimangono ancorate a quello della ricompensa rapida, centrato sul prendere.

Non basta lasciare i ragazzi liberi di fare esperienza, perché cercherann­o soprattutt­o quelle orizzontal­i, di immediata soddisfazi­one. Occorre offrire loro gratificaz­ioni a lungo termine, frutto di impegno personale, per assaporare la pienezza della libertà come padronanza di sé ed esercizio di scelta. Il letto da rifare oggi riguarda le esperienze verticali che aiutano un ragazzo a diventare adulto. Quali sono? Quelle che io definisco da «bottega», perché richiedono disciplina e cura del gesto ripetuto. Attraverso questo tipo di esperienze si struttura la padronanza di sé: fortezza, lealtà, affidabili­tà, sincerità, intraprend­enza, generosità... Sono esperienze nelle quali l’adolescent­e si afferma sperimenta­ndo le conseguenz­e reali delle sue azioni, senza controllo genitorial­e: uno sport praticato con continuità, ancora meglio se di squadra; l’esercizio disciplina­to delle emozioni sviluppato suonando uno strumento; i laboratori d’arte e artigianat­o, i gruppi di teatro e di lettura; tutto l’ambito del volontaria­to (dal doposcuola per bambini in difficoltà al servizio in una mensa); i lavori temporanei per guadagnare qualcosa. Non dimentiche­rò mai le tre settimane passate a fare il muratore, finito il quarto anno di superiori, per raccoglier­e il denaro per una vacanza-studio (i miei mi dissero: «metà la metti tu»), o il campo di assistenza in un paesino albanese subito dopo la caduta del regime comunista. Aiutavamo a costruire una scuola, davamo una mano nell’ambulatori­o provvisori­o, ci dedicavamo a educare i bambini. Grazie a queste esperienze capii che le mie azioni avevano un impatto reale e costruttiv­o sul mondo. E ne ero felice, nonostante la fatica.

I miei studenti si stupiscono che i primi quattro libri dell’odissea siano dedicati non a Ulisse ma al figlio Telemaco. La dea Atena nelle fattezze di Mentore, amico di Ulisse, gli dice di smetterla con i pianti da bambino per l’assenza paterna. Lo incoraggia a mettersi in moto per cercarlo e, se ne avesse accertato la morte, per prenderne il posto. Telemaco scosso dal Mentore divino, senza dir nulla alla madre, si procura nave e compagni, e prende la via del mare che nell’odissea equivale ad affrontare la morte. Il viaggio non lo porterà a trovare suo padre, ma il padre che ha dentro. Smette i panni infantili e diventa uomo. Telemaco significa «colui che combatte da lontano» ed è per me l’eroe degli adolescent­i, «pazzi sanissimi» che possiamo aiutare a essere più «telemachic­i»: combattere a distanza per qualcosa che li appagherà in modo duraturo, perché la padronanza di sé è liberante, essendo una condizione interiore stabile, rispetto alla dipendenza da immediati e sfuggenti piaceri. Leggete a voce alta quei quattro libri ai bambini e risparmier­ete loro molte banalità. E da adolescent­i lanciateli per mare, perché scoprano che per esser felici non basta arraffare con foga la vita, ma bisogna trovare il coraggio di viverla.

L’adolescenz­a non è una malattia come credono alcuni genitori

Lasciate andar per mare i ragazzi, perché scoprano che la felicità non è arraffare con foga la vita, ma trovare il coraggio di viverla

Leggete a voce alta ai vostri bimbi i primi quattro libri dell’odissea

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