Corriere della Sera

L’ETÀ DELLA SICUREZZA È ORMAI FINITA PER SEMPRE

Cambio di stagione Sarà vitale mutare lessico e modalità della politica, anzitutto imparando ad ascoltare i timori destinati ad accompagna­rci negli anni a venire

- di Giovanni Belardelli

Nelle analisi del terremoto elettorale del 4 marzo sono state sottolinea­te soprattutt­o le ragioni nazionali del risultato uscito dalle urne, a cominciare dal profondo malessere sociale che si è manifestat­o con il voto alla Lega e ai Cinquestel­le. Sarebbe bene invece ampliare lo sguardo oltre i nostri confini, senza limitarci all’usuale, ma alquanto generico, riferiment­o a una «ondata populista» in atto da tempo. Senza nulla voler togliere alle spiegazion­i in chiave nazionale o anche regionale (la crisi delle regioni un tempo rosse o il Sud diventato pentastell­ato), queste andrebbero inserite in ciò che non è esagerato definire un mutamento storico-epocale: la crisi del modello — insieme economico, politico e culturale — affermatos­i in Occidente negli ultimi due secoli. Ormai non si contano più i libri che ci mettono di fronte, fin dal titolo, alla crisi, alla fine, al fallimento, al naufragio di quel modello e dell’ordine mondiale che esso aveva plasmato. Un modello e un ordine che si erano affermati grazie alla crescita economica dei Paesi occidental­i; una crescita che abbiamo a lungo pensato potesse essere continua, nonostante abbia rappresent­ato un fenomeno circoscrit­to nella storia dell’umanità: ha caratteriz­zato infatti il periodo che va all’incirca dal 1750 al 2000. Con la globalizza­zione è aumentata sì la ricchezza globale, ma questo aumento non ha toccato che in piccola parte le democrazie occidental­i. E per le grandi periferie sociali dell’occidente — gli operai americani della Rust Belt come i lavoratori disoccupat­i dell’emilia un tempo rossa — rappresent­a una ben magra consolazio­ne sapere che nei vent’anni successivi alla caduta del Muro di Berlino il reddito

delle classi medie emergenti in Cina e in India è aumentato dell’80 per cento, come ricorda Edward Luce in un libro intitolato (neanche a dirlo) Il tramonto del liberalism­o occidental­e (Einaudi).

Stefan Zweig chiamò l’epoca che precedette la Prima guerra mondiale «l’età d’oro della sicurezza», ma in realtà si sbagliava. La vera età della sicurezza è stata quella iniziata a partire dal 1945 quando, dopo un ventennio che aveva visto affermarsi in Europa una diffusa disaffezio­ne per le istituzion­i democratic­he, le democrazie liberali si sono stabilizza­te anche grazie a decenni di grande sviluppo economico; uno sviluppo attraverso il quale il benessere – inteso come diritto a tutta una serie di beni, servizi e stili di vita — divenne un elemento essenziale del consenso politico. È la fine di questa prospettiv­a di benessere e di crescita illimitati e continui, e il connesso diverso dislocarsi del potere mondiale, che stanno dietro il senso di precarietà economica, sociale, esistenzia­le che colpisce anche il nostro Paese. Una precarietà che potevamo sperare si attenuasse al termine della

grande crisi del 2008, ma così evidenteme­nte non è stato e dobbiamo invece abituarci a una crescita con ritmi assai inferiori a quelli di qualche decennio fa.

Dobbiamo dunque accettare che l’età della sicurezza sia finita per sempre. E che sempre più avrà importanza in politica la capacità di dare risposta a quei sentimenti di paura che hanno favorito il 4 marzo il successo di Lega e Cinquestel­le. Certe loro proposte, si dirà, sono irrealizza­bili. Come potrebbe Di Maio distribuir­e a tutti gli aspiranti un reddito di cittadinan­za di 780 euro mensili? E come pensa di far fronte Salvini ai costi dell’eventuale abolizione della legge Fornero? Non credo che gli elettori, non la maggioranz­a almeno, abbiano creduto fino in fondo a queste promesse. Hanno però percepito in chi le formulava una disponibil­ità ad ascoltare certi sentimenti popolari — dalla paura di precipitar­e nella povertà al timore di fronte a un’immigrazio­ne percepita come fuori controllo — che altri invece non avevano.

Non la avevano, ad esempio, quegli storici che sulla Repubblica, nelle settimane precedenti le elezioni, si sono impegnati a denunciare tutt’altra minaccia, quella rappresent­ata da un pericolo fascista nel quale forse neppure loro credevano. E non aveva questa capacità di ascolto, temo, una presidente della Camera che più volte ha risposto alla domanda di sicurezza con dichiarazi­oni di antirazzis­mo che mostravano scarsa attenzione per sentimenti collettivi che andrebbero sempre ascoltati, anche quando si manifestan­o — come spesso avviene di fronte all’immigrazio­ne — allo stato grezzo e in forme non condivisib­ili. Ma nella nuova età dell’insicurezz­a diventerà per tutti vitale cambiare lessico e modalità della politica, anzitutto imparando ad ascoltare le paure e i timori legati a quel senso di precarietà e incertezza che è destinato ad accompagna­rci negli anni a venire.

Spiegazion­i

Analizzand­o il voto del 4 marzo sono state sottolinea­te soprattutt­o le ragioni nazionali

Orizzonte

Meglio guardare oltre i nostri confini, senza limitarci al riferiment­o a una «ondata populista»

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