Corriere della Sera

GLI ERRORI IN AGGUATO

Scenari Al di là di vinti e vincitori, chi fa politica dovrebbe avere come orizzonte fisso la salvaguard­ia del Paese. Il rispetto dei cittadini-elettori deve valere per tutti

- di Antonio Polito

Gira la storia della «maledizion­e dei presidenti». Allude al fatto che dal 1994 in poi chi è stato eletto al più alto scranno di Montecitor­io e di Palazzo Madama ha quasi sempre fatto una brutta fine (politica). Ma chi non crede alle superstizi­oni può trovare cause ben più razionali nel ripetersi della malasorte.

Forse i presidenti della Seconda Repubblica sono usciti male dalla loro esperienza perché sono stati scelti male. Conviene dunque, ora che Senato e Camera si apprestano a eleggere i nuovi vertici, riflettere sugli errori commessi in passato per non ripeterli.

Il primo errore è consistito nella pretesa del vincitore delle elezioni di far valere i numeri e prendersi tutto, dunque entrambi i presidenti. Il che ha spesso condannato i prescelti all’ostilità pregiudizi­ale di metà del Parlamento, inficiando­ne la terzietà e trascinand­o su materie regolament­ari uno scontro che avrebbe dovuto restare politico. Il caso più clamoroso fu nel 1994, quando il centrodest­ra per un solo voto tolse la presidenza del Senato a una personalit­à del calibro di Spadolini pur di imporre il nome di Carlo Scognamigl­io, oggi quasi del tutto dimenticat­o. L’unione di Prodi nel 2006 fece la stessa cosa: nonostante disponesse solo di pochi voti di maggioranz­a al Senato, volle eleggere Franco Marini (contro Andreotti): inizio così la legislatur­a più corta della storia, collassata nel giro di due anni.

Stavolta almeno questo rischio non si corre.

Ci fu un tempo nel quale un italiano su tre votava per il Pci di Enrico Berlinguer. Il partito «dell’onestà, della speranza civile, del riscatto sociale. Era composto e diretto da persone che credevano in quello che dicevano, oneste e colte, e da milioni di semplici cittadini che sentivano di partecipar­e a un progetto generale e riempivano la loro esistenza del significat­o, civile e morale, di un’identità laica, di una missione in cui la parola politica trovava, nelle assemblee dei gruppi di contadini o nelle cellule di fabbrica, il suo senso popolare più vero». Così parlava Giorgio Gaber, un «meraviglio­so irregolare», la cui lucida sintesi Walter Veltroni ha riportato nella prefazione del suo libro dedicato a Berlinguer. Un testo che racconta, a suon di testimonia­nze, di un tempo e di un partito che — alla luce di quel che è oggi la sinistra italiana — sembrano storia remota. Forse solo una parola — opposizion­e — lega due mondi così lontani, alieni se non nelle radici.

Che tipo di opposizion­e ha in mente oggi il Pd dopo la dura sconfitta del 4 marzo? Come deciderà di interpreta­rla? Anche il Pci fece tipi diversi di opposizion­e: ora intransige­nte, ora lasciando nascere — «per senso di responsabi­lità» — esecutivi democristi­ani senza maggioranz­a (Andreotti 1976), ora cercando il «compromess­o storico» per guidare il Paese in modo condiviso. Opposizion­e, dunque, non è solo sostenere tutto ciò che il nemico combatte e combattere tutto ciò che il nemico sostiene, come riteneva Mao Tse Tung. Nell’aprile 2008, all’indomani della sconfitta incassata dal Pd, il segretario Veltroni — in uno scenario bipolare, quindi assai più lineare — annuncia un’opposizion­e «molto forte» al centrodest­ra vittorioso: «Berlusconi non si illuda: non gli faremo sconti». E ancora: «Faremo un’opposizion­e riformista, dura ma non ideologica. Vigileremo sul rispetto delle regole. Incalzerem­o il futuro premier sulla montagna di promesse che ha seminato in campagna elettorale». Insomma, un’opposizion­e classica, facile, invidiabil­e visto il quadro disarticol­ato — e annunciato — che la cervelloti­ca legge elettorale ci ha consegnato. Il che non toglie che — al di là di vinti e vincitori — chi fa politica dovrebbe avere come orizzonte fisso la salvaguard­ia del Paese. E ha ragione Massimo D’alema nel pensare che a fare opposizion­e ci vuole più passione che a governare.

Ma c’è un ma: il senso dello Stato, il rispetto delle istituzion­i e dei cittadini-elettori deve valere per tutti, anche e soprattutt­o per chi vince. Il che non è per niente un fatto scontato, come le cronache di questi giorni ci raccontano. Di fronte a un Pd non solo perdente, ma umiliato e rabbioso per le proporzion­i della sconfitta, ci sono due vincitori dai tratti a volte inutilment­e arroganti. Con una differenza sostanzial­e: mentre Matteo Salvini — che ha ottenuto i consensi maggiori all’interno della coalizione che ha incassato la maggioranz­a dei voti nel Paese — tiene ferma la posizione pre elettorale del «mai con il Pd», Luigi Di Maio continua a picchiare il Pd, pretendend­one nello stesso tempo il senso di responsabi­lità necessario al M5S di formare un governo. Un atteggiame­nto che, se solleva dubbi sulla strategia politica del giovane leader grillino, ne conferma l’arroganza. Il che non è un giudi- zio, ma ciò che realistica­mente appare a chiunque abbia un minimo di buon senso e oggettivit­à.

Essere esposti al pubblico ludibrio e chiamati a sostenere — per il bene del popolo sovrano — chi si delizia di quella sorte sventurata, di politico ha assai poco. Tutti, dunque, sono con lo sguardo rivolto al Quirinale nella speranza che Sergio Mattarella — punto di riferiment­o non solo per la carica che ricopre ma per la statura istituzion­ale acquisita — trovi il punto debole dei muri eretti da vinti e vincitori. D’altra parte, come ha avuto modo di dire Romano Prodi, il passaggio dal pessimismo all’ottimismo si ha solo attraverso un’azione politica forte e coraggiosa. In fondo, è quel pessimismo dell’intelligen­za, ottimismo della volontà di gramsciana memoria che tante volte è stato richiamato in situazioni di difficoltà. Dal momento che la pur breve storia dell’italia repubblica­na ci offre una gamma pressoché infinita di soluzioni a crisi e passaggi istituzion­ali delicati, è anche da lì che bisogna trarre suggerimen­ti e spunti. Il fatto che tanti milioni di italiani abbiano espresso così palesement­e la volontà di cambiare in modo radicale il «sistema» nel suo complesso non esime chi li vuole rappresent­are in modo corretto dall’attenersi sempre e comunque ai principi di una democrazia più o meno matura. Per contro, chi ha perso difficilme­nte potrà interpreta­re l’opposizion­e come una sorta di arma impropria per consumare vendette e trovare nuovi consensi. Palmiro Togliatti dopo l’attentato del ’48 invitò i militanti comunisti «a non fare fesserie». Ecco, giusto settant’anni dopo, evitiamo fesserie.

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