Il fascino della tv che si occupa più dei carnefici che delle vittime
P erché la tv si occupa più dei carnefici che delle vittime? Di solito, la questione riguarda la fiction, come se, tanto per fare un esempio, «Gomorra» fosse la causa di tutti mali del Sud, baby gang comprese. In realtà, la «celebrazione» dei carnefici passa molto di più attraverso la programmazione normale, quella che «finge» di occuparsi della realtà.
Non erano per nulla fuori posto le parole del capo della polizia Franco Gabrielli nello stigmatizzare la sovraesposizione mediatica dei brigatisti rossi in occasione del quarantennale della strage di via Fani. Anzi. È vero che in questo modo abbiamo conosciuto la povertà intellettuale e il narcisismo di quei terroristi, il loro squadrismo anti-istituzionale, figlio di una deriva culturale della sinistra, ben coccolata da una borghesia incosciente. È anche vero, però, che nelle ricostruzioni storiche non bisogna sottrarsi alle testimonianze più scomode.
Ma perché la tv si occupa più dei carnefici che delle vittime? Perché tutta questa enfasi morbosa nei confronti di chi ha ucciso? Perché si raccolgono come reliquie le frasi di Franca Leosini che riecheggiano la peggiore letteratura manieristica? Perché è nata la figura televisiva del criminologo, parodia ridicola di una nuova professione fondamentale? Chi vuole capire il perché di questo sbilanciamento deve assolutamente leggere il saggio (molto serio) di Oriana Binik, Quando il crimine è sublime. La fascinazione per la violenza nella società contemporanea (Mimesis, 2018). Attraverso quattro casi di studio (tra cui il programma «Quarto grado» e il turismo nei luoghi del crimine), la Binik ci spiega perché siamo così affascinati dal crimine, perché ci piace travalicare ogni limite, sia pur seduti in poltrona, perché contrastiamo il «sublime addomesticato» della tv rovistando nelle trasmissioni che si fondano sulla ricerca dell’estremo. Perché, aggiungo, nei media la vittima è vittima due volte.