La carta Fico per raggiungere due obiettivi
Il suo nome potrebbe dare un segnale al Pd ed evitare tensioni interne sull’asse con la Lega
ROMA Due immagini, per segnalare che in politica il tempo corre fulmineo: Rimini, 24 settembre 2017, Roberto Fico si rifiuta di salire sul palco e discute animatamente con Luigi Di Maio, che non riconosce come capo del Movimento; Montecitorio, 20 marzo 2018, un Fico sorridente entra a braccetto con Di Maio nell’assemblea dei neodeputati, accolto da un lungo applauso che sancisce una sintonia ritrovata. Non è un caso, dunque, che il nome di Fico venga sempre più accreditato come uno dei candidati 5 Stelle per guidare Montecitorio.
La voce si è fatta più insistente, anche dopo l’incontro riservato tra i due, ieri mattina, prima dell’assemblea. Non è detto che Fico sarà la carta giocata alla fine dei colloqui, ma ci sono diverse buone ragioni perché lo sia. E ce n’è una che consiglia prudenza allo stesso Fico, che ieri negava: il deputato napoletano, prima di diventare presidente della Commissione di Vigilanza, è stato candidato un po’ a tutto. A governatore della Campania (arrivando quarto, con l’1,34 per cento e 39 voti). A sindaco di Napoli (sesto, dietro Clemente Mastella). Ma soprattutto, nel 2013, fu candidato proprio a presidente della Camera.
Allora fu un’assemblea infuocata dei 5 Stelle neoeletti, durata sei ore, a incoronarlo. Oggi, a dimostrazione della rapidità dei tempi politici, la retorica assemblearista è definitivamente tramontata e a decidere è un uomo solo al comando, Luigi Di Maio (con la collaborazione di Davide Casaleggio, che nel Movimento non ricopre alcun incarico). Al tempo a Montecitorio salì Laura Boldrini. E più tardi fu il collega di M5S Di Maio a ottenere una buona ribalta, diventando vicepresidente della Camera.
Nel frattempo, Fico ha cambiato pelle più volte. Le origini di sinistra (votò Bassolino e poi Rifondazione) lo hanno portato spesso a prendere posizioni critiche sulla linea. Il deputato napoletano è stato descritto dai retroscena come il capo della fronda dei dissidenti. I quali hanno cambiato più volte nel tempo profilo, quantità e maglietta, passando da «ortodossi» a «pragmatici» e viceversa. Poi, negli ultimi mesi, è avvenuto l’allineamento con i vertici e con il nuovo corso impresso da Di Maio. Tanto che poche settimane fa, il suo nome è circolato (prima di essere misteriosamente espunto) anche nella squadra dei «ministri», presentata in pompa magna da Di Maio.
A suggerire ai vertici di riprenderlo in considerazione per Montecitorio ci sono un paio di ragioni. La prima è che il deputato ex barricadero potrebbe rassicurare il Pd e intercettare qualche voto a sinistra (anche se la presidenza della Vigilanza gli ha provocato più di un nemico). L’altra è perfettamente speculare. Perché è noto come Fico non ami la Lega, tanto da aver contestato in passato l’ipotesi di un’alleanza.
Ieri, alle agenzie che provavano a farglielo notare, chiedendogli se approverebbe un’alleanza con il Carroccio, ha risposto infastidito: «Fate solo teatro». A pochi passi, però, un suo fedelissimo, Giuseppe Brescia, ha aperto: «Sui temi si possono fare alleanze con tutti». Insomma, un accordo che conducesse Fico a Montecitorio potrebbe, almeno nelle intenzioni dei vertici, renderlo più malleabile sul tema delle alleanze. Spianando la strada a un controllo, già piuttosto militare, della pattuglia parlamentare. Fermo restando che molti dei nuovi sono un’incognita tutta da scoprire e che non è detto che non si replichino i meccanismi della scorsa legislatura. Ma, per ora, siamo ai sorrisi e alle entrate a braccetto, con tanto di standing ovation.