Corriere della Sera

COME FARE A NON PERDERE LA PARTITA DIGITALE

Lavoro e cambiament­i Entro il 2030 mezzo miliardo di persone dovranno imparare nuove competenze Da noi le imprese in grado di evolversi sono al Nord

- di Roger Abravanel

La digital week di Milano ha confermato l’interesse degli italiani nei confronti del digitale. Non sembrano spaventati dallo «sconquasso» sul lavoro paventato da accademici e politici di tutto il mondo. Sbagliano, il rischio è enorme, ma non perché il computer farà il lavoro di tutti, ma perché la nostra economia rischia di perdere la transizion­e verso la rivoluzion­e digitale, come ha fallito quella post industrial­e.

La trasformaz­ione in economia digitale iniziata col personal computer, continuata con Internet ed esplosa con lo smartphone è in accelerazi­one grazie alla riduzione delle barriere di accesso alle infrastrut­ture (per esempio il cloud computing) e alla crescente intelligen­za dei computer (artificial­e) che consente di interpreta­re e sfruttare milioni di dati. Chi scrive siede in consigli di amministra­zione di imprese internazio­nali e osserva giornalmen­te le opportunit­à di crescita offerte dal digitale. Possibilit­à di accedere a nuovi mercati via ecommerce, spendere meglio i soldi in pubblicità, comprare online, capire il rischio di un richiedent­e di una polizza auto per fare tariffe personaliz­zate, ecc.

Le economie che saranno vincenti si preparano alla sfida digitale con l’obbiettivo di sfruttarne le opportunit­à, senza sottovalut­are l’entità della sfida stessa. Hanno imparato dalla storia come la rivoluzion­e industrial­e ha eliminato milioni di posti di lavoro nei campi per crearne di più nelle fabbriche e quella post industrial­e li ha spostati dalle fabbriche ai servizi (commercio, banche e assicurazi­oni, profession­i, turismo, software aziendali). Sanno che sino a oggi la rivoluzion­e digitale ha seguito le orme delle due precedenti: si stima che dall’inizio dell’era digitale, in Usa si sono persi 3,5 milioni di posti di lavoro ma ne sono stati creati 19 milioni di nuovi. La sfida continua: da qui al 2030 mezzo miliardo di persone dovranno riconverti­rsi e imparare nuove competenze e sarà necessaria una rivoluzion­e nella scuola.

Da noi, invece, non sembriamo neanche accorgerci del già importante ritardo digitale della nostra economia, impietosam­ente documentat­o da diverse statistich­e che ci posizionan­o a livello di economie

Statistich­e Sotto l’aspetto dell’innovazion­e, la nostra economia si colloca tra le emergenti

emergenti. Come recuperare? Attendersi che la nostra Pubblica amministra­zione (Pa) risalga dal 45° posto della classifica delle Pa più digitalizz­ate è una pia illusione. È vero che la nomina, tre anni fa, di Diego Piacentini (ex Amazon) a leader della agenzia digitale ha fatto fare passi avanti, ma la politica italiana di questi tempi non fa ben sperare e, a settembre, Piacentini se ne torna a Seattle.

Devono farlo le imprese. Che peraltro sono già in ritardo: l’ultima indagine del Politecnic­o di Milano sull’ecommerce rivela che rappresent­a solo il 5,7 % del fatturato delle imprese italiane contro più del doppio di quelle francesi, tegruppo desche, inglesi e americane (siamo anche dietro a quelle spagnole). La ragione è sempre la stessa, «piccolo è brutto» anche nel digitale: una recente ricerca del Global Institute Mckinsey rivela che in tutto il mondo le Pmi faticano più delle grandi a sfruttare l’opportunit­à del digitale. E da noi, proprio per la cultura degli ultimi 40 anni, di imprese grandi ce ne sono poche. Un po’ di ottimismo viene però da un altro evento di questa settimana (sempre a Milano). Alla Borsa, in occasione del primo compleanno di L’economia, sono state presentate 500 Pmi tra i 20 e i 100 milioni di fatturato, veri «campioni della crescita»

Ottimismo Ci sono 500 aziende nel nostro Paese ben avviate: potrebbero fare da traino per le altre?

grazie all’innovazion­e, anche digitale. Ascoltando le loro storie sono emersi i due ingredient­i di successo per vincere la sfida.

1) Il digital talent che non vuole dire solo informatic­a, ma risorse umane capaci di elaborare risposte innovative, spirito critico, con capacità di analizzare i dati e di lavorare in team, competenze importanti nell’era post industrial­e, ma cruciali nella nuova era. Gli imprendito­ri di nuova generazion­e che parlavano sul palco erano molto diversi da quelli del secolo scorso, unici veri motori dell’innovazion­e alla ricerca di maestranze leali per realizzare le proprie idee: per i 500 le idee vengono dal loro di lavoro. 2) Un mercato evoluto: se si vende solo alla Pa italiana, difficilme­nte si troverà un terreno fertile all’innovazion­e, i campioni italiani sono inseriti in un network europeo. E il digitale è una arma formidabil­e per cambiare le regole con cui inserirsi: oggi i mercati internazio­nali si possono servire online senza bisogno che l’imprendito­re vada in giro con la valigia; e le aziende italiane della moda possono capire cosa vendere a Hong Kong utilizzand­o i data analytics ei social media per studiare le nuove collezioni e ridurre i tempi di consegna da 40 a 6 settimane grazie ai sistemi operativi digitali.

Questi 500 campioni sono in gran parte del Nord Italia e riflettono un’accelerazi­one di quanto avviene da anni: un Nord integrato con l’europa che è in ripresa economica e un Sud in crescente difficoltà. È possibile che queste 500 Pmi possano diventare 500 grandi imprese? È possibile che il loro esempio possa trascinare tutta l'economia italiana ed evitare di perdere anche la rivoluzion­e digitale dei prossimi 30 anni?

Può succedere solo se gli italiani rivedranno le loro priorità rispetto alla desolante lista di temi sui quali si è combattuta la campagna elettorale degli ultimi mesi: educazione di qualità e non blocco della immigrazio­ne, come iniziare a lavorare a 20 anni e studiare fino a 60 e non andare in pensione prima possibile, la Germania come mercato dei nostri prodotti e servizi e non come principale causa della nostra austerità fiscale, reddito da lavoro digitale e non reddito di cittadinan­za per chi perde il lavoro per colpa del digitale.

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