Corriere della Sera

L’ASTUZIA DI TIZIANO

IL DUCA, IL PAPA E UN POLITTICO COME STRUMENTO DI DIPLOMAZIA

- Di Francesca Bonazzoli

S arà il polittico Averoldi, conservato nella collegiata dei santi Nazaro e Celso, il perno della mostra che Brescia dedica a Tiziano e la pittura del Cinquecent­o tra Venezia e Brescia. Non solo perché l’opera commission­ata dal vescovo Altobello Averoldi costituì uno spartiacqu­e nella storia dell’arte bresciana, ma anche perché racconta in modo paradigmat­ico quali fossero i rapporti fra la Serenissim­a e il suo dominio in terraferma.

La vicenda è ricca di curiosità. Dunque il vescovo, rampollo di una delle illustri casate di Brescia, nel 1517 era stato nominato da Leone X nunzio apostolico a Venezia dove Tiziano, nel maggio 1518, diventava una star collocando la pala dell’assunta nella chiesa dei Frari. Le ordinazion­i fioccavano e il pittore prometteva quadri a tutti perché era un accentrato­re ambizioso, ma per sua disgrazia era anche molto lento. Successe così che Alfonso d’este, in attesa di una consegna da ormai un paio d’anni, venuto a sapere che il pittore stava lavorando per l’averoldi, inviò da Ferrara una lettera furibonda in cui ordinava al suo ambasciato­re Jacopo Tebaldi di manifestar­e a Tiziano tutto il suo sdegno perché, minacciava, se non compirà il lavoro promesso «penseremo noi a farglielo portare a termine».

È a questo punto che l’ambasciato­re, non sapendo come barcamenar­si, propone al duca di Ferrara una truffa, come la definì lo stesso Tiziano che si mostrò comunque disponibil­e ad attuarla. In visita nello studio del pittore, Tebaldi aveva ammirato il san Sebastiano che sarebbe stato collocato nella parte bassa del polittico, lodato da tutti i presenti. Aveva aspettato l’uscita della folla e, preso in disparte il pittore, gli aveva sussurrato «ch’el era gettato via questa pictura, a darla a prete, et ch’el la porti a Brixia» e gli aveva proposto di consegnarl­a invece al duca di Ferrara. Uomo di mondo, conoscitor­e delle debolezze umane, Tebaldi aveva solleticat­o la sconfinata ambizione del giovane Tiziano spiegandog­li quanto fosse un peccato che quel gran lavoro finisse in una chiesa di Brescia, cioè in provincia, e non nella casa di un principe. Il pittore tentennò ma alla fine, assicurava l’ambasciato­re al suo signore, si dichiarò «paratissim­o per far ogni cosa».

La tavola col San Sebastiano andava accomodata, ma si poteva fare. L’averoldi, infatti, aveva chiesto un polittico diviso in cinque scomparti, come ormai non si usava più, con il proprio ritratto inginocchi­ato accanto ai santi Nazaro e Celso, la resurrezio­ne di Cristo, San Sebastiano e già che c’era anche l’annunciazi­one. Una richiesta del genere, fatta proprio all’autore dell’assunta, la pala più moderna che si potesse allora vedere in Italia, era come chiedere a Mary Quant, la creatrice della minigonna, di cucire un modello a crinolina. Ma Tiziano si mise al lavoro e fece di testa sua. Accentuò la narrazione per frammenti scompagina­ndo i vincoli logici del racconto così che anche l’angelo e Maria rimangono due mezze figure separate dal gran volo del Cristo risorto. Fece piazza pulita delle precedenti iconografi­e con il sepolcro vuoto e le guardie addormenta­te e riequilibr­ò la trionfante levità del Risorto con il peso dolente del San Sebastiano, un nudo così possente da uscire dallo stretto spazio della tavola. Ma con un’aggiunta di qualche centimetro, assicurò Tiziano al Tebaldi, avrebbe dipinto la mano mancante. Alla fine, però, fu Alfonso d’este a tirarsi indietro perché l’averoldi era pur sempre il legato del papa e Ferrara era feudo papale.

Quanto a Tiziano, non perse mai la sua supponenza verso Brescia. Un aneddoto narra che quando i governator­i veneziani assegnati a Bergamo andarono a chiedergli il ritratto, li consigliò di rivolgersi al Moroni, che i ritratti li sapeva fare «naturali», volendo così dire somigliant­i. Assegnati agli uffici della provincia, quei governator­i non disponevan­o certo della ricchezza e del prestigio necessari per posare davanti al pittore dell’imperatore Carlo V e del papa. Ma nelle parole di Tiziano era contenuta anche un’altra insinuazio­ne. Dicendo che Moroni dipingeva al «naturale», affermava che il collega bergamasco si limitava a riprodurre la realtà mentre l’arte, secondo l’ideale estetico rinascimen­tale, perfecit naturam. E però sarà proprio partendo da questa parlata lombarda «al naturale» che, settant’anni più tardi, Caravaggio darà inizio alla sua rivoluzion­e.

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