Corriere della Sera

LE NOMINE DELL’ULTIMO ISTANTE

- di Pierluigi Battista

Certo, il governo Gentiloni potrebbe dire che l’infornata di nomine all’ente inutile denominato Cnel, con relative indennità, era un appuntamen­to istituzion­ale inderogabi­le. Ma le scadenze possono essere rispettate in modi diversi, senza lo spettacolo non proprio brillante delle indennità ripristina­te, senza la corsa alla lottizzazi­one, senza far finta di niente o calcare le orme del passato, come se non esistesse l’imbarazzo di un atto dovuto sì, ma da esercitare senza enfasi. Certo, possono anche dire che i No al referendum hanno bocciato la cancellazi­one costituzio­nale del Cnel, e quindi cosa avranno da borbottare adesso i fautori della bocciatura della riforma: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Lo possono dire, certo, ma davvero pensano che la valanga di No sia partita per l’abolizione del Cnel? Una buona arma nella ritorsione polemica, ma nulla di più. Se il referendum fosse stato solo sull’abolizione del Cnel, i Sì sarebbero arrivati quasi al cento per cento. Una classe politica con un minimo di rispetto di sé avrebbe anzi fatto uno sforzo per abolirlo tutto insieme dopo il 4 dicembre, senza scadere nella spirale delle ripicche. Ma questa classe politica non c’è. E adesso, ripicca dopo ripicca, siamo arrivati al giro di nomine lautamente indennizza­te compiute da un governo che dovrebbe gestire solo l’ordinaria amministra­zione. Come se la lezione del 4 marzo 2018 non esistesse.

Che poi si tratta di piccoli gesti, di entità economica decisament­e modesta, quasi risibile. Però i simboli non hanno costi e prezzi. Lavorano sulle emozioni e sull’immaginazi­one, che non sono prerogativ­e di un’umanità minore, come ora tendono a sostenere gli sconfitti, convinti che si tratti di cose esclusivam­ente «di pancia», irrazional­i, infantili.

E con la potenza dei simboli non si può più scherzare dopo l’uragano delle ultime elezioni, con il vento di rivolta definiamol­a pure «populista» che ha bocciato un sistema sentito come un sistema chiuso, arroccato nei suoi privilegi, nella sua routine elitaria che taglia fuori le maggioranz­e. Si può minimizzar­e, si può non drammatizz­are, ma la rivolta del 4 marzo non aspetta altro che di poter replicare la sua strepitosa performanc­e. Adagiarsi perciò nella routine non è una buona scelta. Forse il basso profilo, il tran tran del governo che vede in quelle nomine un suo rito imprescind­ibile, tutto questo poteva essere una necessaria compensazi­one dopo anni di frenesia superattiv­istica, di cronorifor­mismo stordito da mille annunci e poche realizzazi­oni. Ma adesso la via del sopire, del procedere senza farsi contagiare appare come l’applicazio­ne di un minimalism­o del tutto poco consapevol­e dei rischi che si corrono. Ogni gesto simbolico che possa essere interpreta­to come il mantenimen­to di un sistema di privilegi assume così i contorni di un gesto sbagliato, e controprod­ucente. Il disbrigo burocratic­o di una scadenza da rispettare è un conto: il Cnel, finché esiste, deve essere messo nelle condizioni di funzionare (sia pure a vuoto, come accade oramai da anni). Un altro è infiocchet­tarlo con il ripristino delle indennità, con le dimensioni elefantiac­he degli organi dirigenti, con i litigi delle varie fazioni per assicurars­i qualche posto in un organismo da tutti liquidato come gravato dal peso dell’inutilità. La maggiore attenzione alla dimensione simbolica degli atti politici dimostrere­bbe infatti che la lezione è stata registrata, che il contatto emotivo con un elettorato in rivolta è stato ripristina­to. Un piccolo nuovo inizio. Mentre il giro delle nomine è un ritorno indietro, un arretramen­to. Il contrario di quel che serve.

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