Corriere della Sera

Dai like ai profili Perché il caso riguarda tutti noi

I dati venduti a società che li usano a fini diversi: piccola guida per capire le (possibili) conseguenz­e

- di Davide Casati

Un numero enorme di azioni che compiamo ogni giorno genera dati. La tessera fedeltà del supermerca­to, la geolocaliz­zazione del cellulare, una chat. Ecco una piccola guida per capire le conseguenz­e.

La previsione era lì, in bella vista, a pagina 13 del documento annuale presentato poche settimane fa alla Sec, la Consob statuniten­se. «Non possiamo garantire, nonostante i nostri sforzi, la sicurezza assoluta e l’uso corretto dei dati dei nostri utenti»; se qualcosa andasse storto, «il nostro business, la nostra reputazion­e e i nostri risultati finanziari ne sarebbero gravemente danneggiat­i». Firmato: Mark Zuckerberg. Il caso Cambridge Analytica, rivelato da Observer e New York Times, ha mostrato al mondo i danni che a Facebook può provocare una scarsa trasparenz­a su eventuali usi scorretti dei dati raccolti attraverso il social network. Ma quali conseguenz­e hanno, sui cittadini, i meccanismi portati sotto i riflettori da questa vicenda?

Questionar­i mobili

Per capirlo non serve andare lontano. Un numero enorme di azioni che compiamo quotidiana­mente, infatti, genera dati. La tessera fedeltà del supermerca­to, la geolocaliz­zazione del cellulare, un servizio di chat: e sono solo alcuni esempi. Quei dati — preferenze di acquisto, posizione, contatti — possono essere venduti a società in grado di usarli per fini diversi: dalla ricerca alla creazione di campagne pubblicita­rie «chirurgich­e». Facebook — che deriva il 98% dei suoi ricavi dagli spot: cioè dalla vendita ad aziende dell’attenzione dei suoi utenti — ha un’enorme capacità di raccolta di dati (forniti dagli iscritti) e di segmentazi­one dell’audience (cioè di creazione di gruppi omogenei per caratteris­tiche e preferenze). Tutto questo può avere lati positivi: una pubblicità che intercetti i gusti degli utenti fa felici aziende e consumator­i. Ma c’è anche un lato meno scintillan­te. Per scoprirlo bisogna partire dalle parole di uno psicologo e data scientist, Michal Kosinski: «Il nostro cellulare è un enorme questionar­io psicologic­o che, consciamen­te o no, compiliamo di continuo».

170 like

La data in cui la rivoluzion­e digitale si mostrò in tutta la sua potenza è il 2013. Fu allora, con uno studio pubblicato sulla rivista Pnas, che Kosinski — all’epoca dottorando all’università di Cambridge — mostrò la possibilit­à di predire caratteris­tiche sensibili di un utente basandosi su un piccolo numero di like su Facebook. Ne bastano 170, scrisse, per capire ad esempio etnia, tendenze sessuali e preferenze politiche di una persona. I social si trasformar­ono, immediatam­ente, in database in grado di fornire profilazio­ni perfette su elementi di incalcolab­ile delicatezz­a. «Non ho costruito questa bomba», si è poi giustifica­to Kosinski, «ho solo mostrato che era lì». Nel cratere di quell’esplosione si è mossa Cambridge Analytica: acquistand­o milioni di dati è riuscita, secondo il suo ad, Alexander Nix, ad avere i profili di un numero enorme di elettori americani, e a garantire ai suoi clienti la possibilit­à Luci e ombre Mark Zuckerberg, 33 anni, durante una presentazi­one nel quartier generale di Facebook a Menlo Park, in California di inviare messaggi personaliz­zati a ognuno di loro, sfruttando­ne paure, bisogni e probabili comportame­nti. Dati di importanza fondamenta­le perché — spiegava ancora Nix — «la personalit­à guida il comportame­nto, e il comportame­nto influenza il voto».

«Determinis­mo tech»

Lo stesso Nix mostrava, in una presentazi­one del 2016, come le tecniche di profilazio­ne psicografi­ca avessero reso possibile trasformar­e Fb (e le tv via cavo) in campi di propaganda di inedita perfezione. «Attenzione, però, al determinis­mo tecnologic­o», avverte Dino Amenduni, dell’agenzia di comunicazi­one Proforma. «Quel che non sappiamo, e forse non sapremo mai, è quanto davvero i metodi psicometri­ci abbiano influenzat­o l’esito del voto alle presidenzi­ali Usa, o al referendum sulla Brexit. Si tende spesso a sopravvalu­tare l’impatto della comunicazi­one: che resta, ed è un bene, secondaria rispetto alla politica».

Trasparenz­a

Resta aperto, continua Amenduni, un tema di trasparenz­a. Tanto più grave se si considera, scrive la ricercatri­ce Zeynep Tufecki, come «il modello di business di aziende come Facebook si fondi, di fatto, sulla possibilit­à di una profilazio­ne priva di qualunque cosa si possa ragionevol­mente definire consenso» e «destinata a essere usata in modo opaco». Il disinnesco della «bomba» di Kosinski passa, inesorabil­mente, da una convivenza informata, e da una richiesta di regole più chiare. «Se non sappiamo proteggere i dati, non li meritiamo», ha detto ieri Zuckerberg: in un’altra, dolorosa, previsione.

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