«Io c’ero con Mark La missione era una sola: il massimo profitto»
Martinez, ex collaboratore: disconnettersi? Inutile
«Cancellarsi da Facebook è il nuovo trasferiamoci in Canada». Scherza Antonio García Martínez, ex product manager di Facebook. Ma neanche troppo. Martínez sa di cosa parla. Dopo un passato in Goldman Sachs, nel 2011 si mette al servizio di Zuckerberg. Poi nel 2013 gli volta le spalle, già consapevole di come la tecnologia e i prodotti creati dai golden boys del tech abbiano modificato irreversibilmente il nostro mondo, ben oltre lo scandalo di Cambridge Analytica. Il suo libro Chaos Monkeys (2016) è stato un caso, un atto d’accusa al capitalismo della Silicon Valley.
Davvero l’unica soluzione per proteggere noi stessi è togliersi da Facebook?
«Beh equivarrebbe a ritirarsi su un’isola deserta. Un po’ difficile, direi. Anche perché allora dovremmo buttare via i nostri telefoni e non accendere più un computer. Invece dovremmo cambiare modo di ragionare: quando si parla di profilazione a scopi commerciali, nessuno si scandalizza più di tanto, eccezione fatta per voi europei che siete ancora molto sensibili al tema. Ma quando si parla di manipolazione psicologica a fini politici allora il discorso cambia. Ed è qui che ci dobbiamo ribellare. Per farlo non ci vuole tanto: basta usare la propria testa per pensare».
Ribelliamoci alla manipolazione, pensiamo con la nostra testa
Secondo molti Zuckerberg ha commesso un errore enorme a immischiarsi con la politica: ha messo in pericolo la democrazia?
«Io non credo che la profilazione psicografica sia in grado di modificare il risultato elettorale. Nessuno potrà mai costringerti a votare il tal candidato, proprio come non ti può imporre di comprare un paio di scarpe. Ma può forzare il tuo orientamento. Per capirci non penso che Trump abbia vinto grazie a Cambridge Analytica. Ma questo non rende meno grave il comportamento di Facebook. Se tu chiudi gli utenti dentro la famosa bolla li privi della possibilità di essere in connessione con il resto del mondo».
Quando lei era in Facebook già si parlava di profilazione psicografica?
«Si, c’erano contatti con gli esperti di Cambridge, sapevamo che ci stavano lavorando ma i risultati non sembravano soddisfacenti. All’interno del data team di Facebook qualcuno aveva preparato un nuovo strumento che raccomandava agli utenti le pagine che avrebbero gradito. E che cosa ha iniziato a sputare questo algoritmo? Ogni tipo di stereotipo etnico si possa immaginare. Ad esempio, a chi piaceva il rapper Jay Z uscivano le pagine su Obama. Lo sbaglio è stato lasciare questo meccanismo libero di agire. Poi, nel 2016, con le elezioni sono iniziati i guai. E ora l’equazione (sbagliata) è diventata Trump e la Brexit hanno vinto per colpa di Facebook».
Perché Zuckerberg non ha reso pubblico furto di dati e interferenze russe sul voto?
«La violazione dei dati personali è qualcosa da imputare a due livelli: il primo, quello degli sviluppatori la cui missione non è quella di disegnare prodotti che tutelino gli utenti ma di creare piattaforme che ne attraggano sempre di più. Il secondo è quello manageriale. Ma anche qui la missione è solo una: il profitto. Non c’è una dimensione etica, al di là di quello che viene raccontato. In Chaos Monkeys spiego come sia l’avarizia eccessiva a muovere l’industria del tech. Il problema è che questa avarizia eccessiva non tiene conto delle conseguenze e rischia di far implodere il sistema».