Corriere della Sera

«Avevo 19 anni lui 75, abusi al primo impiego Ma ho avuto giustizia»

- Di Irene Soave e Elena Tebano

Per cento

I casi in cui le donne vittime hanno subito più ricatti dalla stessa persona. Il 69,6% ritiene molto o abbastanza grave il ricatto subito Per cento

I ricatti ripetuti quotidiana­mente o più volte alla settimana. Oltre l’80% delle donne vittime non l’ha mai denunciato Milioni

Le donne che nel corso della vita hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Le più colpite sono le impiegate «T ante volte avrei voluto lasciar perdere. Tre gradi di giudizio, un decennio: chi me lo ha fatto fare, mi chiedevo. Sempre a vederlo entrare in tribunale a testa alta, come uno che è nella ragione. Ma poi Michela e io abbiamo ottenuto giustizia. E questo ripaga di ogni cosa». Denise Galli pistoiese, aveva solo 19 anni, quando ha iniziato a subire molestie in ufficio. Come la sua collega Michela B. che all’epoca ne aveva 24. Nel 2012, quattro anni dopo, il Tribunale di Pistoia ha condannato il loro datore di lavoro Mario Romano, titolare della ditta di poste private L. H. Express, a risarcirle rispettiva­mente con 25 mila e 40 mila euro: una sentenza che ha fatto storia e ha segnato una svolta nella tutela delle donne molestate sul lavoro. Anche se tutt’oggi Denise non riesce a parlarne senza scoppiare in lacrime: «Per mesi non ho lasciato che nessun uomo mi avvicinass­e a meno di un metro, avevo il ribrezzo», ricorda. E anche se ancora non tutto è a posto: «Ora Romano risulta nullatenen­te — dice Galli oggi 29enne —. Tutte le case di cui si vantava con noi le ha vendute durante il processo. Quindi gli hanno solo pignorato una quota della pensione, io ricevo 100 euro al mese. Eppure sono contenta, e rifarei tutto».

Denise, neodiploma­ta, è arrivata alla L.H. nel 2008 tramite un centro per l’impiego. «Già il colloquio fu bizzarro, al buio, in una specie di cantina, con lui che aveva atteggiame­nti strani. Mi prese subito e iniziai l’indomani. Mi copriva di attenzioni: aveva 75 anni, io 19, e le lessi come premure paterne, anzi, da nonno. Un regalino al mio compleanno, cioccolati­ni, lodi. Quando andava in trasferta insisteva per portarmi con sé, in auto. All’inizio parlava solo di sé e dei suoi traguardi: la barca a Portofino, 12 metri, la villa al mare. Poi iniziò a toccarmi. Se lo respingevo, si bloccava. Ma la volta dopo rifaceva uguale. Io non volevo parlarne: mi vergognavo, come se avere accettato le sue attenzioni, pur senza intenderne la natura fino in fondo, mi avesse resa complice. Un giorno, in ufficio, mi baciò sulla bocca, o meglio ci provò perché io riuscii a divincolar­mi. Lui scappò».

Da allora le condizioni di lavoro di Denise cambiano. «Iniziò a farmi contratti brevissimi, come era uso in quell’ufficio, senza vincoli di orario e di mansione. Quando mi misi in malattia, perché mi ero lussata una spalla: a casa mi arrivò una lettera che diceva che ero licenziata per gravi mancanze. Non ne avevo mai

Che cosa fare commesse». Il licenziame­nto, come ogni provvedime­nto seguìto a molestie sessuali sul lavoro, è stato poi considerat­o nullo.

Denise si rivolge allora alla Cgil, che apre una vertenza. Ci va accompagna­ta dai genitori, «senza i quali non avrei mai fatto un solo passo per denunciare». Al sindacato trova ascolto, ma soprattutt­o scopre di non essere la sola dipendente dell’azienda ad avere subito un trattament­o simile. Altre due colleghe, assunte nel frattempo alla L.H., hanno gli stessi problemi. Una di loro è Michela B., che poi sporgerà denuncia insieme a Denise, e che tra gli elementi probatori porterà una registrazi­one da cui emergono le avances di Romano e i rifiuti 1

Se si subiscono atti configurab­ili come molestie verbali o fisiche, per prima cosa va esplicitat­o in modo chiaro che non sono graditi. Lo si può fare in modo cortese ma fermo, spiegando per esempio che pur apprezzand­o il rapporto profession­ale con chi li compie, si vuole che rimanga solo tale. O che si trovano inopportun­i certi comportame­nti sul lavoro. Meglio se si riesce a farlo via mail o via sms, da conservare Le figure di tutela

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Se i comportame­nti sono gravi o comunque si ripetono in modo insistente, prima di imboccare la strada di una denuncia ci si può rivolgere alla Consiglier­a di fiducia (negli uffici pubblici) o alle Consiglier­e di parità provincial­i, regionali o nazionale che hanno potere di intervento e di indagine anche sulle aziende private. Ci sono poi i sindacati: è importante rivolgersi agli uffici ad hoc. Devono essere specializz­ati su questi temi, come anche gli avvocati

La raccolta delle prove 3

È importante raccoglier­e quanti più elementi possibile a sostegno della denuncia. Il consiglio è di salvare eventuali messaggi e stampare le email; se si è in difficoltà si può registrare un incontro con il capo molesto da mostrare poi al giudice (nelle cause di lavoro si può): a scopo difensivo possono essere raccolti anche audio o video con lo smartphone. A volte sono indizi anche le mail in cui le vittime al momento dei fatti avevano raccontato l’accaduto a conoscenti di lei. Tramite il sindacato, le due ragazze entrano in contatto con l’allora Consiglier­a di parità regionale, Wanda Pezzi. E anche per il suo ruolo che il loro caso è così importante.

Pezzi, che è un pubblico ufficiale e ha potere di indagine, chiede all’ufficio del lavoro i dati sul personale dell’azienda e scopre che, mentre i dipendenti maschi rimangono a lungo, per le donne non è così. C’è, si legge nella sentenza di Cassazione di novembre 2016, «un serrato turn over tra le giovani dipendenti assunte dall’odierno ricorrente, che dopo un breve periodo di lavoro si dimettevan­o senza apparente ragione».

Denise e Michela, assistite dall’avvocata Marica Bruni, denunciano. Il resto è giurisprud­enza: in tribunale arrivano vari colleghi, arruolati tra i testimoni della difesa per smontare le loro tesi. C’è anche l’unico che, all’inizio, aveva invece incoraggia­to Denise a denunciare. La giudice Elisabetta Tarquini, però, parte dai dati statistici e fa un passo in più: chiama a testimonia­re tre ragazze a caso tra quelle che avevano lavorato nell’azienda e poi l’avevano lasciata all’improvviso. Due di loro descrivono atteggiame­nti da parte del datore di lavoro simili a quelli raccontati da Denise e Michela. La terza sostiene di non aver subito niente e di essere all’oscuro di tutto: che se ne è andata perché aveva trovato un lavoro migliore. Dalle indagini emerge però che è stata disoccupat­a e poi ha lavorato come babysitter: la testimonia­nza contraria diventa un indizio a favore delle vittime e la giudice condanna il datore di lavoro. Lui ricorre in Appello e Cassazione, ma perde.

Denise oggi è soddisfatt­a, anche se le rimane un’amarezza di fondo: «Era il mio primo lavoro, avevo solo 19 anni, ed ero tutta contenta di diventare indipenden­te... Se penso alla ragazzina che ero provo tanto dispiacere per quello che ha dovuto passare».

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Sul blog La 27esima ora su «Corriere.it» si possono leggere tutte le puntate dell’inchiesta condotta sulle molestie sessuali avvenute sul lavoro Online

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