Corriere della Sera

Com’era fragile l’italia di Moro

L’analisi di Marco Damilano (Feltrinell­i): nel 1978 cominciò il declino del sistema democratic­o Il leader assassinat­o temeva le scosse delle eccessive passioni ideologich­e

- Di Aldo Cazzullo

È il 28 febbraio 1978. Aldo Moro ha 61 anni ed è l’uomo più potente d’italia. Gli restano sedici giorni di libertà e settantuno di vita. Andreotti si è offerto di cedergli il posto di presidente del Consiglio, ma lui ha valutato che il suo progetto di inclusione del Pci nella maggioranz­a avrebbe avuto maggiori possibilit­à di successo se a Palazzo Chigi fosse rimasto un uomo della destra cattolica, scettica verso il compromess­o storico e quindi bisognosa di essere tranquilli­zzata.

Quel giorno, Moro partecipa alla riunione dei gruppi parlamenta­ri della Dc, il partito che da oltre trent’anni governa il Paese. All’ingresso un giovane cronista che ha già cominciato a costruire il più formidabil­e archivio del giornalism­o italiano, Filippo Ceccarelli, tenta di farlo aprire con il più vago degli approcci: «Presidente, lei parlerà?». Moro risponde inclinando la testa e sorridendo rassegnato, una di quelle movenze languide e un po’ levantine da cui i suoi numerosi nemici traevano un’impression­e di debolezza e inconclude­nza: «Eh così, andiamo un po’ a sentire…». In realtà Moro ha preparato un discorso che si rivelerà insieme il suo capolavoro e il suo testamento politico.

Il nuovo libro di Marco Damilano — Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia (Feltrinell­i) — offre davvero molti spunti. Intanto è decisament­e ben scritto. Si apre con una pista personale: nella primavera del 1978 l’attuale direttore dell’«espresso» è un bambino di dieci anni, che ogni giorno passa da via Fani sullo scuolabus guidato da una bella signora bionda, la direttrice della Montessori, dove tutti devono fare tutto. E Aldo Moro è il primo politico che ha visto: gliel’ha mostrato il padre, inginocchi­ato in chiesa. Il percorso sulle orme del presidente democristi­ano conduce, alla fine del libro, nell’austero cimitero di Torrita Tiberina, a picco sul Tevere, dove Moro riposa. L’ossatura del libro è costituita dalle carte, spesso inedite, custodite nell’archivio Flamigni. È straordina­rio come una vicenda tanto scavata lasci ancora trapelare coincidenz­e al limite dell’incredibil­e e troppi punti ancora da chiarire, dalla strage di via Fani alla mano dell’assassino (Gallinari? Moretti? Maccari? O il legionario De Vuono?). Ora spunta una foto inedita con Moro, Piersanti Mattarella e Mino Pecorelli: tutti assassinat­i. Ora emergono detda tagli che solo una metropoli come Roma — capitale della politica, della cristianit­à e pure dello spettacolo — può custodire: testimone del massacro della scorta Moro è il giovane Francesco Pannofino, l’attore; a riconoscer­e indisturba­to a Trastevere il brigatista Casimirri è il padre di Jovanotti, Mario Cherubini, della gendarmeri­a vaticana; e si potrebbe aggiungere Piera Degli Esposti seduta per caso in via Caetani, in attesa del suo impresario, sul cofano della Renault rossa che cela il corpo della vittima.

Ma Damilano è un giornalist­a politico. E fin dal sottotitol­o il libro spiega come la morte di Moro coincida non solo con la crisi del terrorismo rosso e con l’inizio della fine di Dc e Pci, ma anche con il declino della mediazione politica. Lo psicodramm­a di questi nostri giorni, con leader palesement­e impreparat­i sul piano culturale e forse anche umano, è il seguito di una tragedia nazionale cominciata quarant’anni fa.

Quel 28 febbraio Moro invita gli uomini del suo partito a guardare fuori dal Palazzo, a rendersi conto dell’«emergenza reale che è nella nostra società. Io credo all’emergenza, io temo l’emergenza. La temo perché so che c’è sul terreno economico e sociale. Credo che tutti dovremmo essere preoccupat­i di certe possibili forme di impazienza e di rabbia, che potrebbero scatenarsi nel contesto sociale». Il Paese di fine anni Settanta rifiuta «autorità, vincoli, solidariet­à». «Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizion­e, chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionali­tà intensa e dalle strutture fragili fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizion­e condotta fino in fondo…».

Giustament­e Damilano si sofferma sulla definizion­e che Moro dà dell’italia: «Paese dalla passionali­tà intensa e dalle strutture fragili». Non è cambiato molto da allora. Nel 1978 il problema è aprire la maggioranz­a al Pci, che non avrà ministeri ma per la prima volta dalla cacciata di Togliatti nel 1947 sta per votare la fiducia a un governo. Moro rivendica il ruolo di scudo verso il comunismo che la Dc ha esercitato, ma rivendica anche il proprio ruolo di artefice del centrosini­stra e dell’apertura ai socialisti, e aggiunge: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese». E poi la frase-chiave che spiega meglio di qualsiasi altra il metodo democristi­ano: «È la nostra flessibili­tà, più che il nostro potere, che ha salvato fin qui la democrazia italiana».

Il discorso di Moro sciolse molte indecision­i, anche se nel partito rimase più stimato che amato. La lista dei ministri non piacque ai comunisti, che non vi videro il rinnovamen­to atteso: erano state privilegia­te le correnti conservatr­ici della Dc, sempre nell’ottica morotea di portare tutto il partito, a cominciare dai più riottosi, all’incontro con il nemico di sempre. Sarà solo il rapimento di Moro a indurre il Pci a votare la fiducia ad Andreotti; ma la scomparsa del grande mediatore farà fallire quel disegno, che non doveva portare al consociati­vismo ma all’alternanza.

I paragoni con il presente sono sempre ingannevol­i e fallaci. Ma fa comunque impression­e rileggere nel libro parole che sembrano adattarsi alla fase incerta e conflittua­le che stiamo vivendo: «Se voi mi chiedete tra qualche anno cosa potrà accadere (parlo del muoversi delle cose, del movimento delle opinioni, della dislocazio­ne delle forze politiche), io dico: può esservi qualche cosa di nuovo. Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamen­te a questo domani, credo che tutti accetterem­mo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabi­lità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà».

 ??  ?? Rossella Biscotti, Il processo (2011): l’installazi­one riproduce alcuni scorci dell’aula bunker sede del Processo Moro
Rossella Biscotti, Il processo (2011): l’installazi­one riproduce alcuni scorci dell’aula bunker sede del Processo Moro

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