I gol-poesia di Maradona rievocati nei versi di Saba
C’ è una hybris in Theatrum mundi show di Pippo Di Marca, una hybris che mi innervosisce. È la pretesa di condensare in uno spettacolo di due ore cinquant’anni di lavoro teatrale; di più, la propria biografia culturale e la storia della poesia d’occidente. E tuttavia in questa ambizione c’è qualcosa di eroico: non già spudorato, o solo spudorato, ma proprio, alla lettera, di eroico. Lo dico pensando al teatro che vedo, al teatro che si vanta, al teatro che viene premiato. Viviamo nella medietà, nella ripetizione, nella sudditanza. Celebriamo il teatro londinese o parigino, ma né a Londra, né a Parigi un Theatrum mundi sarebbe concepibile. Onore a Pippo Di Marca, e al Florian che lo ha prodotto e al teatro di Roma che all’india lo ospita. Avrà pochi spettatori? Pazienza. Non possono essere i numeri, o solo i numeri a orientare la nostra esistenza. A volte, meglio il prestigio che la popolarità. O no?
Theatrum mundi evoca un pezzo di storia gloriosa e rimossa del teatro italiano, l’avanguardia dei Sessanta e Settanta del Novecento. Non c’è in esso una vicenda, un sia pur lieve intreccio, qualcosa che il cronista possa riassumere. Ci sono quelli che il regista-performer chiama flussi (fluxus). Sono venticinque. Su uno schermo, che sovrasta la scena, e prima che le immagini ne accompagnino le scansioni, si legge dove, senza continuità alcuna, ci troveremo: Cavalcanti-dante-petrarca; oppure: Chlebnikov-esenin-majakovskj; o anche: Dickinson-plath e Villon-rabelais. Ma non c’è solo la poesia, c’è anche il teatro: c’è la Winnie di Beckett, ci sono i negri di Genet. E non si creda di assistere a una successione di brani recitati in modo più o meno suggestivo, più o meno pertinente. Gli scarti, gli scatti in avanti, i passaggi sono dettati da repentini cambi-luce, o da una potente colonna sonora: un fluxus è dedicato a Jim Morrison-jimi Hendrix-janis Protagonisti Da sinistra, Gianni De Feo, Pippo Di Marca (anche regista), Anna Paola Vellaccio e Fabio Pasquini Joplin. Un altro, inaspettato fluxus a Maradona, con le «figure» dei suoi dribbling, dei suoi gol-poesia (nella voce, nei versi di Saba). Il primo e l’ultimo aprono e chiudono l’esperienza della parola estrema, impossibile: Joyce, cioè; cioè Finnegans Wake.
Violer d’amores era uno spettacolo del nostro regista, che qui lo ripropone nelle sembianze di un anziano e nobile signore. Egli urla, o balbetta, è uguale, avanzando lungo una linea obliqua, con l’ausilio di un bianco bastone per ciechi. Anna Livia Plurabelle è l’altro grande personaggio di Joyce: ella crolla a terra, nella scacchiera che è lì, al centro della scena; si dibatte, sussulta in un dannato crocevia surrealista dove si incontrano Borges, il «Grande Vetro» di Duchamp e La Via Lattea di Buñuel. A proposito di cinema, ecco i clown di Fellini e il reporter di Antonioni, ecco Pasolini e Eisenstein.
Ma, per finire, non sono le lancinanti, contundenti presenze di Pippo Di Marca, Gianni De Feo con le sue canzoni, Fabio Pasquini e Anna Paola Vellaccio con la sua sgargiante vestizione, l’anima vera, di oggi, del Theatrum mundi di ieri e di domani?