L’illusione di raccontarci in una gabbia
Se Mark Zuckerberg è uno degli uomini più ricchi del mondo è perché tutti noi che siamo iscritti ai suoi social lavoriamo per lui, e gratis. Ma c’è un aspetto da considerare: ed è culturale. Riguarda un mondo che prima ha considerato i social network dei giochetti per ragazzini, poi ha cominciato a guardarci dentro e ha pensato che si potessero usare per rafforzare le proprie tesi e opinioni. Parlo di quelle che genericamente chiamiamo classi dirigenti. Soprattutto quelle culturali e intellettuali, che dovrebbero essere la vera ossatura del mondo in cui viviamo. Tocca a quelli che hanno studiato, che insegnano, che scrivono spiegare che il sistema di consenso simulato sui social è falsato, e cambia la testa della gente. Il successo — che sia politico, imprenditoriale, intellettuale poco importa — non è più una conseguenza inaspettata, anche se desiderata, di qualcosa in cui si crede. Ma si fabbricano prodotti, si mettono a punto campagne elettorali, si scrivono libri o si girano film parametrati al numero di like che si vorrebbero avere. Si tratta di un capovolgimento che in politica accentua il populismo e in tutte le altre attività porta a una semplificazione continua e distorta, a una ricerca della comprensione e dell’approvazione collettiva. Facebook è un gioco di ruolo che ha un suo modo di raccontarti il mondo. Lo fa come decide lui, e decide quasi sempre di raccontarti le cose che piacciono a tutti, e non quelle che piacciono a pochi. Come è possibile tornare a un’idea reale, etica del mondo, come si può spiegare ai miliardi di dipendenti di Facebook che i like non sono un’unità di lettura della realtà, ma solo un riflesso condizionato? Lo si fa non dando più alibi, togliendo autorevolezza a chi non è deputato a garantire autorevolezza, sottraendo alle bacheche informazioni verificate, riportandole sul web, senza veicolarle con Facebook. I mezzi di informazione, i giornali, le reti televisive, le agenzie, ma anche le case editrici, e con loro gli autori, sono ostaggio della narrazione del mondo pensata da Zuckerberg e dai suoi algoritmi. Per cui sarebbe opportuno considerare il fatto di sottrarsi alla gabbia dei social che ci hanno dato l’illusione di raccontarci e di diffondere le nostre opinioni, ma che invece ci impongono un modello culturale sfuggente e pericoloso.