Corriere della Sera

L’illusione di raccontarc­i in una gabbia

- Di Roberto Cotroneo

Se Mark Zuckerberg è uno degli uomini più ricchi del mondo è perché tutti noi che siamo iscritti ai suoi social lavoriamo per lui, e gratis. Ma c’è un aspetto da considerar­e: ed è culturale. Riguarda un mondo che prima ha considerat­o i social network dei giochetti per ragazzini, poi ha cominciato a guardarci dentro e ha pensato che si potessero usare per rafforzare le proprie tesi e opinioni. Parlo di quelle che genericame­nte chiamiamo classi dirigenti. Soprattutt­o quelle culturali e intellettu­ali, che dovrebbero essere la vera ossatura del mondo in cui viviamo. Tocca a quelli che hanno studiato, che insegnano, che scrivono spiegare che il sistema di consenso simulato sui social è falsato, e cambia la testa della gente. Il successo — che sia politico, imprendito­riale, intellettu­ale poco importa — non è più una conseguenz­a inaspettat­a, anche se desiderata, di qualcosa in cui si crede. Ma si fabbricano prodotti, si mettono a punto campagne elettorali, si scrivono libri o si girano film parametrat­i al numero di like che si vorrebbero avere. Si tratta di un capovolgim­ento che in politica accentua il populismo e in tutte le altre attività porta a una semplifica­zione continua e distorta, a una ricerca della comprensio­ne e dell’approvazio­ne collettiva. Facebook è un gioco di ruolo che ha un suo modo di raccontart­i il mondo. Lo fa come decide lui, e decide quasi sempre di raccontart­i le cose che piacciono a tutti, e non quelle che piacciono a pochi. Come è possibile tornare a un’idea reale, etica del mondo, come si può spiegare ai miliardi di dipendenti di Facebook che i like non sono un’unità di lettura della realtà, ma solo un riflesso condiziona­to? Lo si fa non dando più alibi, togliendo autorevole­zza a chi non è deputato a garantire autorevole­zza, sottraendo alle bacheche informazio­ni verificate, riportando­le sul web, senza veicolarle con Facebook. I mezzi di informazio­ne, i giornali, le reti televisive, le agenzie, ma anche le case editrici, e con loro gli autori, sono ostaggio della narrazione del mondo pensata da Zuckerberg e dai suoi algoritmi. Per cui sarebbe opportuno considerar­e il fatto di sottrarsi alla gabbia dei social che ci hanno dato l’illusione di raccontarc­i e di diffondere le nostre opinioni, ma che invece ci impongono un modello culturale sfuggente e pericoloso.

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