Corriere della Sera

Gli archivi che mancano

Le stanze riservate dove custodire le registrazi­oni e gli altri nodi della nuova norma

- di Milena Gabanelli e Giuseppe Guastella

Non ci sono i server, i pc, gli apparati di sorveglian­za e sicurezza e le stanze dove metterli, non c’è il personale e le regole organizzat­ive sono evanescent­i. Nessuna delle 140 Procure italiane ha allestito l’archivio «riservato» dove custodire le intercetta­zioni previsto dal decreto legislativ­o varato a dicembre. Quando mancano quattro mesi all’entrata in vigore della nuova norma, gli addetti ai lavori scommetton­o su un rinvio chiesto da molti.

«Abbiamo un Paese che usa le intercetta­zioni per contrastar­e la criminalit­à e non per alimentare i pettegolez­zi o distrugger­e la reputazion­e di qualcuno», disse il ministro della Giustizia Orlando dopo l’approvazio­ne del decreto. L’obiettivo era di impedire che la privacy delle persone fosse violata dai giornali, come fosse un fenomeno così diffuso da richiedere un intervento urgente. In verità, a parte rari episodi illegali, di solito vengono pubblicate solo intercetta­zioni che sono agli atti, depurate dei dati che non riguardano le indagini. La nuova procedura rischia di restringer­e anche il campo visivo di pm e avvocati. Le tanto discusse intercetta­zioni in Italia sono in calo: si è passati dalle 141.169 del 2013 alle 130.746 del 2016. Scende anche la spesa: dai 300 milioni del 2009 si è arrivati ai 205 del 2016. Quelle telefonich­e sono la maggioranz­a (110.688), seguite da ambientali (15.984) e «altre», come i «captatori informatic­i» o «trojan» (4.074). I numeri si riferiscon­o ai «bersagli» colpiti e non alle persone, che sono molte meno. Un sospettato per corruzione che, ad esempio, usa un cellulare, un pc, un tablet, ha un’auto, un ufficio e una casa, si traduce in sei bersagli da ascoltare.

La riforma sembra non piacere a nessuno, o almeno non tutta. È stato introdotto il divieto di trascrizio­ne, anche sommaria, delle intercetta­zioni non rilevanti. Quelle, cioè, che riguardano i dati sensibili (preferenze sessuali, vizi privati, salute, opinioni politiche, religione) o delle conversazi­oni tra l’indagato e il suo difensore. A decidere se un’intercetta­zione è irrilevant­e non è il pm, ma la polizia giudiziari­a. Se pensa che lo sia si limita a scrivere nel brogliacci­o (l’elenco dei colloqui con il sunto di quelli rilevanti) solo ora, data e dispositiv­o con il quale è stata eseguita. In caso di dubbi, chiama il pm, e se questi la valuta in modo diverso deve emettere un decreto che autorizza la trascrizio­ne. Il rischio è che una conversazi­one che è irrilevant­e ma molto compromett­ente per chi viene ascoltato, e che quindi non arriva al pm, resti a conoscenza del solo agente che l’ha sentita, il quale potrebbe doverla rivelare ai suoi superiori (come gli impone una norma molto discussa varata l’anno scorso). E chi garantisce che a qualche superiore non possa venire in mente di usarla in modo distorto, magari per un ricatto?

Il presidente dell’anm Eugenio Albamonte ha parlato di «strapotere della polizia giudiziari­a» mentre «diventa impossibil­e un vero controllo da parte del pm». Gli atti vanno conservati in un archivio riservato gestito «sotto la direzione e la sorveglian­za del Procurator­e della Repubblica, con modalità tali da assicurare la tutela del segreto». Se per difendere meglio i loro assistiti gli avvocati vogliono accedere all’archivio — per capire se ci sono intercetta­zioni non usate dall’accusa ma che potrebbero essere utili — le possono solo ascoltare senza copiarle o trascriver­le. Quegli stessi dati, però, rischiano di restare paradossal­mente a totale disposizio­ne delle società private che fanno le intercetta­zioni e che, come si è visto almeno in un caso, potrebbero anche usarli per fini non proprio leciti.

Intervenen­do a Milano a un convegno organizzat­o da Unicost, la corrente più rappresent­ativa nella magistratu­ra che poi ha chiesto di differire la norma, il procurator­e Francesco Greco ha detto chiarament­e che per luglio non sarà possibile allestire l’archivio, aggiungend­o che i procurator­i sono «sconcertat­i» per «problemi che consiglier­ebbero un ministro più attento e un legislator­e più accorto a rinviare l’applicazio­ne». Dal ministero, invece, assicurano che si procede affinché si sia pronti per il 26 luglio. Pare comunque che ci sia la volontà di trovare una soluzione condivisa. Anche gli avvocati sono sul piede di guerra. Plaudono alla «esigenza» di evitare le «intollerab­ili» fughe di notizie, ma sono preoccupat­i per la compressio­ne del diritto di difesa. Solo un imputato con grandi mezzi economici potrebbe permetters­i uno stuolo di legali che, armati della sola memoria, in massimo 20 giorni scandaglin­o ore e ore di intercetta­zioni per trovare quella che salva il cliente. C’è poi la questione dei «trojan», i virus informatic­i che possono essere inoculati dagli investigat­ori negli smartphone copiandone il contenuto e attivando microfoni e telecamere. Strumento molto invasivo per la libertà, prima era usato quasi esclusivam­ente per delitti di mafia e di terrorismo, ora viene esteso ad altri reati da una nuova normativa che aumenta passaggi burocratic­i, costi e tempi della giustizia.

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