Quegli apolidi che fecero l’europa nel solco delle visioni di Abbado
Il destino della Gustav Mahler Jugendorchester, creatura coraggiosa del maestro
P rima ancora dei politici e degli economisti, l’europa l’hanno fatta loro. Un centinaio di giovani musicisti e un direttore dallo sguardo lungo e il cuore grande. Era il 1986 quando Claudio Abbado, lasciata la Scala dopo 18 anni intensi e rivoluzionari, traslocò all’opera di Vienna come direttore musicale e decise di dar vita a un’orchestra mai vista prima. Attraversando (con largo anticipo sui tempi) quella Cortina di Ferro che divideva l’est dall’ovest, riunì i talenti più promettenti di entrambe le parti in una nuova formazione, composta da under 26, e battezzata in onore di uno dei suoi autori prediletti, Gustav Mahler Jugendorchester.
«Una nascita leggendaria nel segno di una cultura condivisa, valore fondante di un umanesimo senza frontiere — ricorda Alexander Meraviglia-crivelli, da vent’anni segretario generale della Gmjo —. Il Muro di Berlino era ancora in piedi e niente lasciava presagire una sua prossima caduta, solo un visionario ostinato come Abbado poteva riuscire in quella che pareva un’impresa impossibile».
Fedele al suo motto, «Se una cosa è giusta la si fa», Claudio non badò a ostacoli e andò dritto al punto. «La sua lunga frequentazione viennese dai tempi in cui seguiva i corsi di Hans Swarowsky, l’aveva convinto che il segreto della qualità del suono dei Wiener nascesse dal fatto che molti di loro provenivano dalla straordinaria Scuola di Kiev, fucina di grandi maestri e grandi solisti. Radici comuni, spezzate dai conflitti della storia, che Abbado si impegnò a riallacciare».
E se per farlo dovette smuovere mezzo mondo, pazienza. In capo a pochi mesi i primi musicisti dell’est iniziarono ad arrivare. «Dall’ucraina, dall’ungheria, dalla Cecoslovacchia... Giovani che per la prima volta varcavano la frontiera, arrivavano nella terra proibita per suonare con coetanei altrettanto ignari del loro mondo. Un momento di libertà condivisa, un’esplosione di energie ed emozioni. La musica aveva precorso l’unificazione dell’europa. E se la nuova orchestra non era politica, politico era l’atto che l’aveva fatta nascere».
Da allora sono passati 32 anni, il mondo è cambiato, molti muri sono caduti, altri sono stati eretti. La Gmjo ha continuato il suo cammino nel solco tracciato da Abbado e attraverso l’incontro con altri grandi maestri, da Gatti a Haitink, da Harding a Mariss Jansons, da Vladimir Jurowski a Anthony Pappano, Lorenzo Viotti, Ingo Metzmacher.
Occasioni di crescita, di rinsaldare lo spirito originario: la musica come strumento di inclusione, il suonare insieme ascoltandosi l’un l’altro. Un percorso musicale e umano che fa della Gmjo l’organico giovanile oggi più prestigioso al mondo, il vivaio a cui attingono le principali orchestre. «Dai Wiener ai Berliner, dal Concertgebouw alla Staatskapelle. Mentre in Italia molti nostri musicisti siedono tra le file della Scala, di Santa Cecilia, del Maggio Fiorentino — elenca Meraviglia-crivelli —. E nel ’97, da una costola della Gmjo Abbado ha tratto la Mahler Chamber Orchestra, e nel 2003 la Lucerne Orchestra, l’orchestra degli amici, il cui nucleo centrale è formato da musicisti della Gmjo e della Mahler Chamber».
Un cuore che pulsa e si rinnova di continuo. Le audizioni per entrare nella Gmjo sono annuali, le selezioni duris- Cuore vivo
● Attualmente sono circa 2.500 i candidati che ogni volta si presentano da 25 città dell’europa per entrare nella Gmjo. Solo 300 passano l’esame e pochi di questi approdano in orchestra alla fine del percorso sime. «L’europa si è allargata, ma anche oggi l’arrivo da certi Paesi è frenato da visti e burocrazie. Alla fine sono circa 2.500 i candidati che ogni volta si presentano da 25 città dell’europa. Solo 300 passano l’esame e pochi di questi approdano in orchestra».
La passione e il rigore si addicono alla meglio gioventù della musica. «E la musica riesce ad aprire le porte più impervie. Nel ’97 la Gmjo è stata la prima orchestra a sbarcare nella Sarajevo martoriata dalle bombe. Siamo saliti sul primo volo per la Bosnia, abbiamo raggiunto un piccolo teatro che durante la guerra era diventato un luogo di resistenza civile».
Racconto emozionante «Lì, diretti da Iván Fischer — conclude —, abbiamo eseguito Beethoven e Richard Strauss, ma anche un brano contemporaneo, “Dai calanchi di Sabbiuno” di Fabio Vacchi. Un simbolo di memoria e di speranza per la gente del luogo, ma anche per tutti i musicisti coinvolti, consapevoli più che mai della forza della musica. Linguaggio comune capace di valicare frontiere e unire popoli».
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