ITALIANI
qui solo per guardare insieme a me la trasmissione, la domenica sera».
Belle gambe che in tv non si vedono mai.
«C’è un motivo. Anni fa, durante una puntata indossai una gonna. Il giorno dopo un collega mi disse che non aveva capito nulla di quello che avevo detto perché guardava solo le mie gambe. Da quella volta bandii le gonne».
In Rai sei arrivata con «Telefono Giallo», dove curavi le inchieste e poi la co-conduzione di «Grandi Processi» con Sandro Curzi.
«Augias è un grande affabulatore. Pure Sandro lo era, anche se l’espresso ironizzò con quella vignetta quando presi ad affiancarlo».
Il disegno, appeso al muro, mostra Curzi che tiene Franca per il collo.
Poi Angelo Guglielmi credette in «Storie Maledette» e nacque la «lingua Franca». Una dialettica «di culto» e anche discussa.
«Ma non dire che è ricercata: io le parole non le ricerco, le possiedo. Non è che io parli in modo straordinario, è il linguaggio comune che si è impoverito. Così quando io dico ardori lombari sembra di udire un narratore ottocentesco ma in realtà sono solo una professionista che cura la scrittura. Io non faccio interviste, faccio narrativa. Ora ti mostro una cosa».
Si alza e torna con un quaderno. È il copione della puntata sul caso di Avetrana: le frasi sono scandite da una metrica con accenti e pause.
Una sorta di spartito musicale?
«È un solfeggio. Tre o quattro mesi per studiare a fondo le carte processuali, quindi la scrittura dei testi. Poi un lavoro ad alta voce: costruisco un’atmosfera. Ai critici faccio notare che dietro ogni puntata c’è un lavoro meticoloso. Ecco perché faccio poche puntate».
Suona il telefono. Franca liquida l’interlocutore con «Mi richiami alle sei» e torna: «Era una casa editrice. Mi corteggiano con calore affinché io scriva un libro. Non ho tempo. Così come declino con garbo gli inviti nelle altre trasmissioni. Io lavoro con persone che hanno ucciso. Il decoro è parte del mestiere».
Anche il leggendario «sguardo di ghiaccio» di Leosini davanti a un condannato?
«Avresti dovuto vedermi subito dopo la storia dedicata a Mary Patrizio, la donna di Valaperta, vicino Lecco, condannata per aver affogato nella vasca il figlio Mirko di cinque mesi. Lei raccontò tutto, nei dettagli. E io capivo che quella donna stava male. Sapevo bene che era colpevole, ma io sono umana: alla fine, a telecamere spente, piansi per un quarto d’ora».
Era Mary Patrizio che consolava te.
«Ma io le avevo restituito una parvenza di vi- Il compagno di vita Sposai mio marito a 22 anni e da allora porto il suo cognome. A una festa mi disse: sai che hai belle gambe? Risposi una cosa tipo: l’adulazione con me non attacca. Ma fu amore
Lo stile narrativo
Io le parole non le ricerco, le possiedo. Non faccio interviste ma narrativa. Mesi per studiare le carte, poi la scrittura dei testi con tanto di pause e le prove ad alta voce ta: qualcuno insinuava che avesse ucciso il figlio perché voleva fare la velina. Lei invece forse aveva la depressione post parto. Da me ha potuto raccontare la sua versione. I processi non si discutono, è ovvio. E l’unica verità è la loro. Ma i processi si interpretano. Con umanità. E oggi in tanti mi sono grati. Aspetta qui».
Fruga in un cassetto, tira fuori un pacco di lettere. Ne riceve a migliaia. Quasi tutte con il timbro carcerario: sono persone che si sono raccontate a Storie Maledette, da Bruno Lorandi, il marmista di Nuvolera condannato all’ergastolo nel 2009 per l’omicidio della moglie Clara Bugna, a Raffaele Cesarano, la guardia giurata che sparò alla moglie Beatrice Rattazzi, vicino Torino. Grafie incerte, parole di ringraziamento, a volte sfoghi, a volte il racconto scarno della quotidianità in carcere. Il rigore della giustizia e un lampo di indulgenza.
Una battaglia tra testa e cuore?
Leosini si commuove. «Io analizzo per mesi queste persone. Poi le ascolto. Impossibile non farsi un’idea. Ma se resto distante, dicono che sono di ghiaccio, se mostro un sentimento, dicono che faccio facile psicologia. Allora coltivo un distacco narrativo. Non permetto repliche delle trasmissioni per non riaprire vecchie ferite, ma non divento amica dei condannati che ospito, i quali mi daranno sempre del lei. E non dico che cosa penso di loro».
Quello più bravo a far passare una certa immagine di se stesso?
«Forse la Guerinoni (la Mantide di Cairo Montenotte, accusata di aver ucciso l’amante nell’87 e tornata libera nel 2014, ndr): ho avuto la sensazione di una donna molto intelligente. Per lei coniai l’espressione crocerossina dell’anima». Ho sempre pensato invece che la Redoli (la Circe della Versilia, condannata insieme all’amante per l’omicidio del marito, nel 1989, ndr) fosse più spontanea».
Ancora il telefono. È Marisa Laurito, una delle tante amiche di Franca. Leosini saluta e torna a sedersi: «Pensavo che fosse ancora Rudy, mi chiama quasi ogni settimana».
Parli di Rudy Guede, unico condannato in via definitiva per l’omicidio Kercher?
«Sì, la sua è stata una delle storie più seguite e controverse. Invitai anche un ex del Ris, per capire come fossero state cercate le tracce e le impronte lasciate nella stanza. Mesi dopo quella puntata, Guede ha ottenuto la possibilità di svolgere il tirocinio all’esterno in base all’articolo 21 dell’ordinamento carcerario».
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