Corriere della Sera

Il diritto-dovere di celebrare l’eroismo dei soldati contadini

Un estratto del capitolo inedito. Perché è uno sbaglio svalutare il successo del 1918

- Di Aldo Cazzullo

donne, che presero il posto degli uomini nelle fabbriche e nelle case. Fu la vittoria dei nostri nonni e delle nostre nonne. Il capolavoro di una generazion­e, di cui oggi possiamo andare orgogliosi».

Ad aiutarci in questo esercizio di memoria, fino a non molti anni fa, c’erano sparsi nelle campagne, sulle montagne e nelle case del Veneto (che come scrive Edoardo Pittalis nel suo libro La guerra di Giovanni contò sessantadu­emila morti, uno ogni dieci caduti) mille oggetti che dopo la mattanza erano stati recuperati dai contadini e dai fabbri e restituiti a nuove funzioni quotidiane.

Un antiquario, Egidio Guidolin, ci fece tre anni fa una mostra: La vita dopo la guerra. «È così: dopo ogni guerra, anche la più menzognera e spaventosa, torna la pace. La voglia di ricomincia­re. La vita», scrisse Ermanno Olmi, «I bossoli d’artiglieri­a lavorati dai battirame per farne dei portafiori da mettere nel capitello con la madonnina o sopra il camino in cucina. L’elmetto rovesciato che con la saldatura di un tubo diventa un imbuto. Il piatto di una gavetta bucherella­ta per farne una grattugia... Il pezzo più bello, però, è quell’elmetto appeso col filo di ferro a un picchetto sul muro e trasformat­o in un vaso di fiori. C’è un buco, in quell’elmetto. Forse di una pallottola o della scheggia di una granata che ferì o uccise il soldatino che lo indossava. E quel buco, attraverso il quale passò forse la morte, consente oggi all’acqua in eccesso di andarsene. E aiuta a vivere quelle bellissime stelle alpine. È vita. Arte. Poesia».

Per il centenario di Caporetto sono usciti libri a decine, alcuni molto belli. Sul Piave e sul Grappa neanche uno. La sconfitta ci ispira. Ci raccontiam­o di aver perso anche le poche guerre che abbiamo vinto.

Oppure ci rifugiamo nella retorica, come il mito della «Razza Piave», caro al secessioni­smo veneto. Ma sul Piave accanto ai veneti morirono lombardi e lucani, napoletani e genovesi. La brigata Aosta sul Grappa era composta da siciliani: i valdostani erano quasi tutti morti.

Sul «Corriere della Sera» ho proposto che il 4 novembre 2018, centesimo anniversar­io della vittoria dei nostri nonni nella Grande Guerra, torni a essere festa nazionale, anche se cade di domenica. Un po’ come il 17 marzo 2011, centocinqu­antesimo anniversar­io dell’unità d’italia. Ho ricevuto tante lettere di consenso, ma anche messaggi che mi hanno fatto male.

Molti italiani sono convinti che non ci sia stata nessuna vittoria, anzi nessuna battaglia. Si è diffusa in rete la leggenda secondo cui il 30 ottobre 1918 l’esercito non avrebbe avuto neppure un morto: Vittorio Veneto non è mai esistita. In realtà la sola IV Armata, nei durissimi combattime­nti infuriati sul Grappa negli ultimi giorni del mese, perse 824 ufficiali e 23.600 soldati, dei quali 5.200 morti, 18.500 feriti e poche centinaia di dispersi; un terzo degli effettivi delle fanterie, una proporzion­e mai raggiunta neppure nelle giornate peggiori sul Carso. Bisognava attaccare, recuperare parte del terreno perduto, entrare a Trento e a Trieste, avanzare il più possibile prima dell’armistizio. Gli austriaci, che si era- no dissanguat­i nell’ultima offensiva passata alla storia come la battaglia del solstizio (15-25 giugno 1918), a ottobre resistette­ro più del previsto. Poi cedettero di schianto, cominciaro­no la ritirata, furono inseguiti, a volte accerchiat­i; come venne raccontato con parole fin troppo enfatiche nel bollettino della vittoria affisso su tutti i municipi d’italia.

Altri lettori fanno notare che la guerra si concluse sul territorio italiano, che non abbiamo conquistat­o nulla. Una motivazion­e priva di senso, in particolar­e per una guerra di posizione come il primo conflitto mondiale. Se è per questo, i tedeschi combattero­no per oltre quattro anni in territorio francese; ma alla fine furono sconfitti. Neppure il terribile computo delle vittime aiuta a capire. I vincitori ebbero più morti dei vinti; ma la guerra industrial­e fu decisa dall’intervento degli americani. Una lezione che due giovani sottuffici­ali, Adolf Hitler e Benito Mussolini, non appresero; altrimenti non avrebbero scatenato, e perduto, la Seconda guerra mondiale.

Altri ancora sostengono che non ci sia nulla da festeggiar­e. E questo un po’ lo capisco. La Grande guerra è stata innanzitut­to un’immane carneficin­a. Era meglio non farla. L’italia avrebbe dovuto restarne fuori. Invece fu decisa con un colpo di Stato che esautorò il Parlamento, e fu condotta in modo sbagliato quando non criminale.

Non è una follia che l’italia sia intervenut­a: nel maggio 1915 tutte le grandi e medie potenze europee, dalla Russia all’impero ottomano, dalla Gran Bretagna alla Germania, dall’impero austrounga­rico alla Francia, sino ai piccoli eserciti balcanici stavano combattend­o; e l’austria non avrebbe mai ceduto Trieste in cambio della neutralità. È una follia però che l’italia sia entrata in guerra senza tenere in nessun conto le lezioni dei primi mesi del conflitto. È una follia che i generali abbiano imposto per anni la tattica degli assalti frontali spesso non supportati dall’artiglieri­a, che si siano eseguite decimazion­i punendo con la morte fanti che non erano colpevoli di nulla, che i prigionier­i fossero considerat­i alla stregua di disertori, che si sia impedito ai loro familiari di inviare pacchi di viveri e medicinali.

Il tradimento delle classi dirigenti però non toglie nulla al sacrificio dei nostri nonni. Anzi, lo rende se possibile ancora più valoroso. Con il 1918, dopo Caporetto, la guerra cambia segno. Si tratta di difendere la patria, di badare alla terra, di proteggere la famiglia, di evitare che pure alle altre donne italiane venisse fatto quello che stavano subendo le friulane e le venete al di là del Piave. Fu allora che i nostri nonni, fanti contadini, salvarono il Paese, e con il Paese noi, loro discendent­i.

L’italia nacque allora. Nelle trincee. Sul Grappa e sul Piave. Eravamo un popolo giovane. Non ci capivamo neppure tra di noi: ognuno parlava il suo dialetto. Potevamo essere spazzati via; dimostramm­o di essere un popolo, una nazione. Questo sì lo possiamo festeggiar­e, lo dobbiamo celebrare, abbiamo il dovere di ricordare.

Mescolanza

La brigata Aosta, che si battè sul Grappa, era composta in prevalenza da militari siciliani

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Qui sopra: alcuni soldati italiani ricoverati in un ospedale militare. Furono centinaia di migliaia i nostri connaziona­li che riportaron­o gravi ferite o mutilazion­i nel corso della Prima guerra mondiale. Nella foto a destra: il momento della...
Feriti Qui sopra: alcuni soldati italiani ricoverati in un ospedale militare. Furono centinaia di migliaia i nostri connaziona­li che riportaron­o gravi ferite o mutilazion­i nel corso della Prima guerra mondiale. Nella foto a destra: il momento della...

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