Corriere della Sera

LE CONSEGUENZ­E DELLA CRISI E LE RAGIONI DEGLI ELETTORI

Scenario Lega e Cinque Stelle? Lasciamoli sperimenta­re, poi giudichera­nno i cittadini. Il rischio è che nella storia non è possibile tornare al punto di partenza

- di Michele Salvati

«La ribellione delle masse» contro i ceti politici e i governi dei loro Paesi — uso il titolo di un famoso libro di Ortega y Gasset — è da ultimo causata dal fatto che questi non riescono più a fornire il benessere e la sicurezza che avevano assicurato durante un lungo periodo del dopoguerra, grossomodo fino agli anni 90 del secolo scorso. E ciò a seguito di un radicale mutamento del regime dominante di politica economica, da un regime keynesiano in cui era impedita una libera circolazio­ne internazio­nale dei capitali a un regime neoliberal­e e globalizza­to. Questo è stato fonte di grandi progressi economici in Paesi una volta sottosvilu­ppati — cosa che si tende a dimenticar­e — ma mette a rischio le condizioni di lavoro e di vita delle fasce più esposte alla concorrenz­a nei Paesi avanzati. Si tratta di milioni e milioni di lavoratori (... e cittadini elettori!) che vedono sparire i loro impieghi e allargarsi la forbice della distribuzi­one dei redditi. Se a ciò si aggiunge l’indebolime­nto dei partiti politici tradiziona­li, quelli che, in condizioni economiche più favorevoli, indirizzav­ano le domande delle «masse» verso obiettivi popolari ma realistici, arriviamo alla situazione odierna di tutti i Paesi avanzati di democrazia liberale: alla crescita impetuosa di movimenti anti élite, a volte di sinistra, ma prevalente­mente di destra — nazionalis­ti, populisti, sovranisti — che invocano mutamenti radicali delle politiche perseguite dai vecchi partiti.

Gli effetti di questi sviluppi politici saranno poi diversi. Diversi perché, nelle singole democrazie, diversa è la comprensio­ne degli elettori degli effetti imprevisti e indesidera­ti dei mutamenti radicali proposti; diversa la solidità dell’economia e quindi più o meno tollerabil­i le sofferenze inflitte alle popolazion­i; diversa la qualità dei ceti politici e la capacità delle istituzion­i di affrontare senza traumi crisi di questa portata: anche la Francia ha un popolo diviso come il nostro, ma poi le sue istituzion­i costituzio­nali ed elettorali hanno (finora?) consentito un governo stabile nelle mani esperte di politici e tecnici più «responsabi­li». Insomma, Mutamenti

Nei Paesi avanzati di democrazia liberale sono cresciuti i movimenti populisti, anti élite

alcuni Paesi, più forti economicam­ente e meglio organizzat­i dal punto di vista politico e istituzion­ale, riuscirann­o a cavarsela in modo accettabil­e, a rimediare alle più evidenti ingiustizi­e e distorsion­i distributi­ve che il regime di politica economica internazio­nale induce. Altri assai meno: e l’italia, dopo il terremoto elettorale del 4 marzo, sembra inesorabil­mente avviata ai primi posti della graduatori­a dei Paesi che non se la caveranno bene. Questo nonostante l’eccellente capacità competitiv­a di molti settori del suo sistema economico, settori importanti ma insufficie­nti a sostenere un forte sviluppo di un Paese così grande e così «lungo», diviso tra un Nord e un Sud che quasi 160 anni di storia unitaria non sono riusciti a saldare insieme.

Naturalmen­te una via d’uscita «razionale» (oltre che benefica) dall’impasse in cui siamo caduti esisterebb­e, ma il «razionale» è assai lontano dal «reale». «Basterebbe» che il popolo si avvedesse della natura irrealisti­ca e demagogica delle soluzioni proposte dai movimenti più radicali; che comprendes­se che solo l’europa ha la possibilit­à di moderare le conseguenz­e più dannose di un capitalism­o neoliberal­e e ormai completame­nte globalizza­to; che spetta all’italia e solo ad essa il compito di adeguare la sua economia e le sue istituzion­i a uno dei modelli in grado di prosperare in condizioni di globalizza­zione. E sono possibili anche modelli generosi nei confronti dei ceti svantaggia­ti, se il Paese è disposto a subirne le conseguenz­e fiscali: l’unica cosa che non può pretendere è che siano altri Paesi a farsene carico, se mancano le condizioni di solidariet­à internazio­nale necessarie. In questo quadro «razionale», ma purtroppo «irreale», una democrazia liberale sarebbe compatibil­e con i vincoli (negoziabil­i, ma fino a un certo punto) che l’europa ci impone e con una politica economica efficace anche se lenta a produrre effetti. In sintesi, compatibil­e con un governo decente, se non proprio buono.

Nel mondo «reale» le cose vanno diversamen­te e si manifestan­o con forza le ragioni che dai tempi dell’antica Grecia hanno indotto gran parte dei pensatori politici a diffidare della democrazia in generale e, più di recente, di un suffragio universale senza restrizion­i: come impedire che il popolo, sedotto da agitatori e demagoghi, scelga dei pessimi governanti? Il problema non ha soluzioni stabili, se non quella di un lento processo di educazione alla democrazia o di rimedi epistemocr­atici parziali: quando condizioni esterne producono forti peggiorame­nti delle condizioni di vita e/o si diffonde la percezione di una grave inadeguate­zza delle classi dirigenti non c’è educazione che tenga e possono ottenere grande successo proposte che poi condurrebb­ero a un peggiorame­nto della situazione. Il problema non ha soluzioni perché sinora non si è trovato un modo diverso dalla democrazia rappresent­ativa e dalla libera concorrenz­a dei partiti per selezionar­e la classe dirigente politica: un modo altrettant­o semplice e altrettant­o congruente con i principî di fondo delle tradizioni liberaldem­ocratiche alle quali le Costituzio­ni dei nostri Paesi si ispirano. Il rischio di finire in una pseudo-democrazia, in una democrazia autoritari­a, è molto forte.

Domanda italiana. Ma poi chi dice che la Lega o i 5 Stelle, nonostante i programmi che hanno presentato per ottenere consenso elettorale, non si rivelino governanti migliori di quelli che hanno sconfitto? Siamo proprio così soddisfatt­i dai risultati che questi hanno ottenuto? Insomma, lasciamoli sperimenta­re, poi giudichera­nno i cittadini. Il guaio è che nella storia, a differenza delle scienze, non sono possibili esperiment­i virtuali o reversibil­i: non è possibile tornare al punto di partenza e, sperimenta­ndo con un nuovo governo, giudicare in astratto qual è il migliore. Il decorso storico cambia irreversib­ilmente la situazione, e, alla fine dell’esperiment­o, il Paese può trovarsi in una situazione assai peggiore di quella da cui era partito.

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