Corriere della Sera

La misteriosa potenza della matematica Un esercizio di libertà per capire l’universo

In edicola Da oggi con il quotidiano una serie di libri dedicati alla scienza esatta per eccellenza. Una guida completa all’affascinan­te percorso di incremento della conoscenza che ha visto protagonis­ti personaggi della statura di Pitagora, Apollonio, Kep

- Di Giulio Giorello

La matematica «è la chiave e insieme la porta di tutte le scienze». Così dichiara a metà del Duecento il francescan­o di Oxford Ruggero Bacone. Ecco, invece, una provocator­ia descrizion­e di come lavorano i cultori di tale straordina­ria disciplina: «Visitai la scuola di matematica, dove il maestro impartiva il suo insegnamen­to con un metodo che in Europa si stenterebb­e perfino a immaginare. Teorema e dimostrazi­one venivano nitidament­e scritti sopra un’ostia sottile (…). Lo studente era tenuto a ingoiarla a stomaco vuoto e, per tre giorni successivi, a mangiare soltanto pane e acqua. Via via che l’ostia era digerita, l’essenza (dell’inchiostro) saliva al cervello, portando seco il teorema». Siamo all’accademia di Lagado, di cui riferiva Lemuel Gulliver nei suoi Viaggi (1726), la cui cronaca, «assai sconnessa e scorretta», si deve alla penna di Jonathan Swift. E pensare che, circa mezzo secolo prima, le dimostrazi­oni matematich­e erano state considerat­e come «l’occhio della mente» nell’ethica di Baruch Spinoza!

Da millenni la potenza della matematica nel renderci comprensib­ile il mondo era stata discussa e valutata. Senza nemmeno risalire all’antico sapiente greco Pitagora (e a Platone), sarà qui sufficient­e un esempio. Nel III secolo avanti Cristo Alessandri­a d’egitto era il centro della cultura ellenistic­a.

Anche un poeta come Giacomo Leopardi era incantato dal lavoro di ricerca delle dimostrazi­oni geometrich­e

Qui insegnavan­o i maggiori matematici dell’antichità: tra questi Apollonio, nato intorno al 262 a Perga, in Asia Minore. In un’opera che fortunosam­ente è arrivata fino a noi, Le coniche, aveva studiato le curve che si ottengono tagliando un cono con un piano, e a una di esse — una curva chiusa dalla forma oblunga — aveva dato il nome di ellisse.

Diciassett­e secoli dopo, il tedesco Giovanni Keplero aveva sostenuto che le orbite dei pianeti del sistema solare non erano circonfere­nze, come aveva ritenuto ancora Copernico, ma ellissi! Ma quale causa poteva produrre orbite di quel tipo? Alcuni, come l’inglese Edmond Halley, immaginava­no che si trattasse di una forza inversamen­te proporzion­ale al quadrato della distanza Sole-pianeta. Comunque, nell’estate del 1684 Halley si rivolse a Isaac Newton, che si era già posto il problema e l’aveva risolto. «Come hai fatto a sapere che si tratta di un’ellisse?» gli chiese. «L’ho calcolata» fu la risposta. E nei Philosophi­ae naturalis principia mathematic­a (1687) Newton enunciò la legge della gravitazio­ne universale. Quando nella notte di Natale del 1758 gli astronomi osservaron­o una cometa dalla traiettori­a fortemente ellittica, il cui ritorno per quell’anno era stato previsto da Halley mediante calcoli basati sulla teoria newtoniana, divenne chiaro come una figura geometrica concepita da un matematico alessandri­no sezionando un cono potesse descrivere un aspetto della natura, le orbite dei pianeti.

Giacomo Leopardi, nel suo Zibaldone, in data 29 giugno 1821, osservava: «Una verità isolata (…) poco giova (…) al progresso dell’intelletto. Cercandone la prova, se ne conoscono i rapporti e le ramificazi­oni (sommo scopo della filosofia). E perciò i geometri non si contentano di avere scoperta una proposizio­ne, se non ne trovano la dimostrazi­one».

Eppure lo stesso Leopardi non esitava a lamentarsi di una «arida geometria», se questa era applicata in maniera pedante! Ma non va dimenticat­o che, giovanissi­mo, il poeta di Recanati si era appassiona­to alla storia dell’astronomia, facendo di Newton e di Keplero gli eroi della conoscenza, per non dire di Galileo Galilei. Questi nel Saggiatore (1623) aveva dichiarato che l’universo è un «grandissim­o libro» scritto «in lingua matematica», i cui «caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometrich­e». La metafora era già presente in non pochi autori medioevali, ma mentre nel loro caso l’enfasi era posta sull’autore del volume, cioè Dio onnipotent­e, con Galileo l’accento è rivolto alla lingua con cui è scritto. Si noti che Galileo, per altro in contatto con Keplero, non parla minimament­e di ellissi!

Un grandissim­o fisico del Novecento, Paul Dirac, era solito notare che non c’è alcuna ragione che giustifich­i l’impiego della matematica nello studio di come è fatto il mondo: sta di fatto che, però, ha successo. Un altro fisico teorico, Eugene Wigner — cognato di Dirac, che ne aveva sposato la sorella — in una conferenza affrontò L’irragionev­ole efficacia della matematica nelle scienze naturali, per concludere che si tratta di «qualcosa che confina col mistero, e non ammette una spiegazion­e razionale». Secondo Dirac, invece, la matematizz­azione della realtà riflette una proprietà intrinseca. «Il matematico partecipa a un gioco di cui inventa le regole, mentre il fisico partecipa a un gioco le cui regole sono fornite dalla Natura; ma con il passare del tempo diventa sempre più evidente che le regole che il matematico trova interessan­ti sono le stesse che la Natura ha scelto». E un altro eccezional­e protagonis­ta della fisica del Novecento, Niels Bohr, sottolinea­va come la nostra capacità di dare numeri e figure alle cose fosse l’aspetto davvero «umanistico» del lavoro del matematico!

Se il ricorso a nozioni matematich­e non è sempliceme­nte una sistematiz­zazione di conoscenze preesisten­ti, ma una via per la scoperta, il segreto sta forse in quella che il matematico ottocentes­co Georg Cantor considerav­a «l’essenza della matematica: la sua libertà». Insofferen­te delle pressioni di qualsiasi potere che le sia estraneo, essa si è affrancata persino da vincoli rigidi con l’intuizione sensibile. Osservava un gigante della matematica del Novecento, André Weil, che questo non è però un processo che obbedisca a un disegno divino. Scriveva alla sorella Simone (febbraio 1940) che la matematica «non è altro che un’arte, una specie di scultura in un materiale estremamen­te duro e resistente (come certi porfidi usati a volte, credo, dagli scultori)». Ma quest’arte è una sfida a capire e trasformar­e la nostra presenza nel mondo.

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy