QUANTO VALE UN BOSCO?
Lo scenario Ignorare il peso monetario del nostro ecosistema porta alla sua mancata tutela. É il punto di partenza del dibattito oggi a Milano promosso da Sofidel, Wwf Italia e Fondazione Feltrinelli L’ITALIA SNOBBA IL CAPITALE NATURALE E COSÌ METTE A RIS
La ricchezza di una nazione non si misura solo con il Prodotto interno lordo (Pil). Economia, finanza, servizi e tutti gli scambi che generano sono soltanto l’aspetto più tangibile e immediato di quanto possiede uno Stato. Poi c’è una parte generata dal patrimonio ambientale. È quello che viene definito «capitale naturale» e che può essere inserito solo parzialmente in un sistema contabile. Il flusso che il capitale naturale genera entra nei servizi ecosistemici ma, come sottolinea il Rapporto sul capitale naturale in Italia, «la loro importanza è in parte ignorata perché molti di questi servizi, non essendo scambiati sul mercato, non hanno un prezzo che sia indicativo del loro valore sociale».
Ma assegnare un valore monetario al capitale naturale non è il primo passo verso lo sfruttamento dell’ambiente? «Anzi, è l’opposto: è capire quanto potrebbe costare la distruzione di questi beni o il mancato intervento per tutelarli», spiega Gianfranco Bologna, direttore scientifico di Wwf Italia. «Si pensi, per esempio, agli incendi boschivi, al depauperamento degli stock ittici o quanto ci costa (anche in termini di vite umane) il dissesto idrogeologico o la mancata prevenzione sismica in un Paese a rischio come il nostro».
Secondo il primo rapporto del 2017 il capitale naturale in Italia valeva 338 miliardi di euro (dati riferiti al 2015), ma il nostro Paese destina all’ambiente solo lo 0,6% del bilancio statale (4,8 miliardi nel 2016), in calo rispetto agli 8,3 miliardi del 2010. Lo sfruttamento dell’ambiente italiano è impressionante: solo l’uno per cento delle imposte viene ricavato da quelle per l’inquinamento, l’uso e lo sfruttamento delle risorse naturali. «I servizi ecosistemici sono ignoti all’economia anche se, mi preme sottolinearlo, la Natura è incommensurabile: non si può misurare e prezzare», aggiunge Bologna. «Il concetto di ecological economy nasce tra gli anni ‘70-’80 del secolo scorso per individuare meccanismi differenti dal Pil. Con la legge 221/2015 siamo riusciti a far inserire anche un articolo per creare il Comitato per il capitale naturale, su esempio della Gran Bretagna, che relaziona il governo su questi temi affinché ne tenga conto nel Documento di economia e finanza (Def) e nella Legge di bilancio».
Il cuore della questione è la contabilità ambientale. Quanto vale un ghiacciaio o una foresta? Quanto un paesaggio o un torrente? Quanto vale l’impollinazione da parte delle api degli alberi da frutta? Certo, possono essere valutati considerando quello che si può ricavare in moneta dal legno o dall’acqua, dal valore del potenziale turistico che generano. Poi c’è un valore psicologico (il benessere che si prova nel vivere in un ambiente sano) e un valore di rigenerazione naturale, per esempio nella fertilizzazione naturale dei terreni grazie ai microrganismi del suolo, o la stessa biodiversità. Elementi di difficile contabilizzazione. Nell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, le Nazioni Unite hanno tracciato lo schema di riferimento per garantire prosperità e benes- sere a tutti senza compromettere in modo irreparabile l’ambiente in cui viviamo. In Italia, la Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, approvata il 22 dicembre scorso, ha ripreso i temi di Agenda 2030 inserendoli in un contesto nazionale e tenendo conto dei cambiamenti climatici in atto che vedono le regioni mediterranee tra gli ambienti sottoposti a maggiore stress.
Ecosistemi e biodiversità costituiscono le fondamenta del capitale naturale, che è legato intimamente alla Green economy e al concetto di economia circolare: recupero, riciclo e riutilizzo. «In senso stretto le foreste incidono sul Pil per lo 0,04%», spiega Alessandra Stefani, direttore generale Foreste del ministero delle Politiche agricole e forestali. «Per il semplice fatto di esistere il bosco porta valore, è inestimabile quanto vale in termini di rigenerazione di ossigeno». L’istat dal 2013 ha iniziato a misurare il Bes (benessere equo e sostenibile) per valutare il progresso non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale e ambientale. Dal 2016 il Bes, accanto al Pil, fa parte del processo di programmazione economica e per quattro indicatori viene allegato al Def. Da quest’anno gli indicatori sono diventati dodici. «La vera sfida è capire quanto valgono tutti questi beni senza mercato», prosegue Stefani.
L’obiettivo lo spiega Bologna: «Lasciare alla prossima generazione di italiani un ambiente migliore di quello che abbiamo trovato».
d Dobbiamo rafforzare il concetto di ecological economy e individuare meccanismi differenti dal Pil Gianfranco Bologna, dir. scientifico Wwf