Corriere della Sera

I video per addestrars­i al jihad e le frasi sui «miscredent­i»: tagliamo la testa e i genitali

Le indagini partite dal telefonino del terrorista di Berlino

- di Giovanni Bianconi

ROMA Dal telefonino di Anis Amri alla moschea di via Chiascio a Latina il percorso non è stato breve. Ma alla fine, l’incrocio dei numeri ha sfornato un elenco di nomi che gravitavan­o intorno al piccolo Centro di preghiera islamica e in contatto con l’attentator­e di Berlino, che a dicembre 2016 venne a morire in Italia dopo aver ucciso una dozzina di persone col suo camion-killer. Tra i quattro espulsi nell’ultimo anno a causa delle loro velleità jihadiste, un paio erano in contatto con Amri e a loro volta legati a Mounir Khazri, un tunisino residente a Latina che — scrive il giudice che ha ordinato gli arresti di ieri — «si è reso protagonis­ta di diverse condotte di inneggiame­nto all’ala più radicale dell’islamismo e incitament­o all’azione violenta con finalità terroristi­che a danni di cittadini italiani ed europei».

Da qualche mese Khazri è in carcere per spaccio di stupefacen­ti, ma a giugno scorso è stato intercetta­to mentre si lamentava di essere stato chiamato in questura dopo aver tolto una telecamera dalla moschea della città pontina. E con il suo amico Abdel Salem Napulsi, arrestato ieri per autoaddest­ramento ad attentati terroristi­ci, commentava che quel luogo di preghiera ormai era diventato «un posto di intercetta­zione», frequentat­o da «infami» confidenti della polizia; lui stesso si lamentava di essere considerat­o un terrorista nel suo Paese: «Mentre gli altri pregavano nella moschea io parlavo e dicevo la verità, e per questo mi hanno schedato».

«I cani ci ascoltano»

Arrivato in Italia, è finito di nuovo sotto controllo, ma — raccontava all’amico — «alla poliziotta ho detto sposami che posso sposare fino a quattro donne». Napulsi approvava: «Così dicono che sei stupido, lasciali pensare così». Invece gli investigat­ori hanno continuato a seguirlo e intercetta­rlo. «Guarda che i cani ti stanno ascoltando», avvertiva, e Napulsi insisteva: «Infedeli figli di puttana, chi ascolta e scrive è infedele». Kazhri recitava i versetti del Corano: «Quando incontrate i miscredent­i colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati», e Napulsi aggiungeva: «Tagliagli la testa e i genitali», provocando le risa dell’amico.

Discorsi e poco più, come gli apprezzame­nti verso «il popolo afghano che si veste come noi, ed è l’unico popolo che mi rappresent­a», a differenza dei tunisini «popolo di spie». Napulsi e Khazri avevano da ridire sul modo di vestire degli occidental­i: «Girano con pantalonci­ni e costume», si lamentava il primo, e il secondo annuiva: «Queste cose mi fanno odiare di vivere in Europa».

Ma l’indagine delle Digos di Latina e di Roma, coordinate dal Servizio antiterror­ismo della polizia di prevenzion­e e dal pubblico ministero Sergio Colaiocco, non hanno registrato solo parole. Hanno anche accertato l’accesso di Napulsi a «31 video esplicativ­i sulle modalità di svolgiment­o, ideazione ed esecuzione di attentati terroristi­ci di matrice jihadista», utilizzand­o «accorgimen­ti per sfuggire ai controlli informatic­i che evidenteme­nte sospettava sarebbero stati effettuati sulle sue ricerche, attraverso l’uso del cosiddetto deep web e di parole chiave non tracciabil­i».

Filmati su tecniche e utilizzo di «carabine e lanciarazz­i del tipo Rpg-7», che insieme alle informazio­ni su «acquisto e locazione di mezzi di trasporto pesanti quali camion o pick up idonei a montare armi da guerra» hanno fatto scattare per Napulsi l’arresto per il reato di «addestrame­nto ad attività con finalità di terrorismo anche internazio­nale» e «condotte con finalità di terrorismo».

I documenti falsi

L’altro capitolo che lega il sottobosco «radicalizz­ato» di Latina

L’odio per l’europa

La rabbia per le abitudini occidental­i: «Girano con i pantalonci­ni e il costume, queste cose mi fanno odiare di vivere in Europa»

e dintorni ad Anis Amri è quello dei falsi documenti d’identità, uno dei quali sarebbe finito proprio in tasca all’attentator­e di Berlino. Il tunisino Montassar Yacacoubi, che lo ospitò ad Aprilia nel 2015 quando lasciò la Sicilia dopo lo sbarco a Lampedusa, ha raccontato agli investigat­ori che Amri, per procurarsi il documento, «si era rivolto a un tunisino di nome Akram Baazaoui», residente a Napoli, riconoscen­dolo in fotografia. La polizia ha cominciato a indagare sul suo conto ed è saltata fuori una rete di gestione del traffico di immigrati clandestin­i che arrivano in Italia e vengono smistati nel resto d’europa.

L’organizzaz­ione, informata degli sbarchi dalla Tunisia, si occupava di far arrivare i migranti a Napoli e dintorni, per poi trasferirl­i irregolarm­ente in Francia o in Germania. In un’intercetta­zione «Akram spiega che c’è un uomo a Ventimigli­a che per 150 euro a persona con la sua macchina prende le persone e le porta in Francia, quello è proprio il suo lavoro». Dopodiché Akram e i suoi complici riuscivano a recapitare i falsi documenti con i dati e le fotografie lasciate in Italia, direttamen­te oltralpe (evitando così di sottoporli a controlli più accurati durante il passaggio della frontiera), dopo aver incassato i pagamenti attraverso il circuito Western Union. Con quegli attestati d’identità i migranti ottenevano il permesso di soggiorno, diventando regolari.

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