Appelli sulle chat, violenze in cella Così i fanatici seminano l’odio
L’appello a colpire è insistente e viaggia in chat, si moltiplica e punta all’italia, «Paese ancora mai attaccato». È questo ad aver allarmato gli analisti dell’antiterrorismo convincendo il ministro dell’interno Marco Minniti a chiedere un ulteriore potenziamento delle misure di prevenzione. Perché è vero che dai servizi di intelligence esteri arrivano segnalazioni di possibili attacchi, ma si tratta di notam generici. Ben più mirata appare la minaccia dei jihadisti che, dopo aver sospeso le pubblicazioni delle riviste specializzate come Rumiah, utilizzano la rete web e più in particolare la messaggistica criptata per la «chiamata alle armi».
La «catena»
Una vera e propria «catena» che, come sottolinea lo stesso Minniti, «serve ad attivare il meccanismo che nessuno è in grado di dire quando si realizzerà.
Nel carcere di Torino Il 20enne Mohammed si è scagliato contro gli agenti: «Sono pronto a diventare un’arma»
E infatti la rivendicazione da parte di Daesh ormai avviene sempre a posteriori, proprio perché si tratta di atti che nella maggior parte dei casi sono stati pianificati singolarmente da lupi solitari o da piccole cellule».
Messaggi che evidentemente trovano veicolazione nei luoghi di ritrovo dei fondamentalisti, ma soprattutto nelle carceri dove il rischio radicalizzazione appare sempre più concreto e pericoloso. Sono i numeri a dimostrarlo: su 29 stranieri espulsi nei primi tre mesi del 2018, sedici sono stati rimpatriati subito dopo essere tornati in libertà per aver scontato la pena.
«Conquista di Roma»
I «profili» degli stranieri espulsi dopo essere stati in prigione mostrano caratteristiche e modalità comuni: gli atti violenti contro la polizia penitenziaria, i tentativi di famarocchino re proselitismo, l’annuncio di un atto eclatante. Anuar Salama, 31 anni, egiziano, chiuso nel carcere di Parma «ha distribuito proclami jihadisti che inneggiavano alla “conquista di Roma”» e poi ha promesso di entrare in azione appena libero. Proprio come Mohammed Tarek, 23 anni, egiziano, che si è scagliato contro gli agenti nel penitenziario di Torino gridando di essere «pronto a divenire un’arma».
Il tunisino Nabil Hafsi, 50 anni, impediva ai compagni di cella di farsi il segno della croce; il suo connazionale Mohamed Asba, 30 anni, «ha aggredito il personale del carcere di Verona con un bastone e un coltello rudimentale invocando il nome di Allah». Il Abdelghani Otman, 35 anni, si era trasformato in imam nel penitenziario di Alessandria e aveva «elogiato l’attentatore di Nizza».
La donna e i soldi
Ad alimentare le preoccupazioni sono pure i collegamenti attivati dall’italia con chi si è arruolato nello Stato Islamico ed è intenzionato a rientrare in Europa.
Il 26 gennaio scorso è stata riportata in Marocco Halima Imrane, 46enne, «residente nel Comasco, moglie di un estremista egiziano che ha combattuto tra i ranghi del 7° Battaglione mujaheddin durante i conflitti in Bosnia degli anni Novanta, ed è stato poi arrestato dalla Digos di Milano per partecipazione a organizzazione terroristica». Le indagini sul marito e sul figlio «inserito nella “lista consolidata”
Il figlio jihadista Halima dal Comasco spediva denaro al figlio che combatteva la guerra santa in Siria
dei foreign fighters perché nel 2014 si è trasferito in Siria dove ancora è attivo tra le file dell’organizzazione Hayiat Tahrir Al Sham, hanno evidenziato la sua piena condivisione della scelta jihadista operata dal figlio, al quale ha fornito anche sostegno economico tramite l’invio di denaro».
Rapporti con la «rete» francese sono stati invece contestati a Ben Ali Chokri, 41 anni, tunisino, «in contatto con diversi estremisti islamici gravitanti intorno alla moschea Belsunce di Marsiglia, alcuni dei quali andati a combattere nel teatro siro-iracheno» che il 12 febbraio «è stato rintracciato ad Anzio dove viveva con una donna italiana a cui aveva imposto le regole islamiche ed è stato imbarcato su una motonave da Genova a Tunisi».