Corriere della Sera

NUOVI PARTITI, VECCHI TEMI ORA SI DEVE PASSARE AI FATTI

Scenario La sfida per gli schieramen­ti è trasformar­e il successo in proposte adeguate alla domanda della società Pena veder sfumare rapidament­e il consenso ottenuto

- Di Mauro Magatti

Era il 1964 quando Bob Dylan lanciava The Times They Are Achangin’, canzone che diventerà la bandiera del ’68. Dopo più di 50 anni, in un mondo completame­nte diverso, le note del cantautore americano possono ancora fare da colonna sonora del tempo che viviamo. Per molti osservator­i il dopo elezioni ci consegna un mondo popolato da marziani. Quasi che sia inimmagina­bile pensare di andare avanti senza le certezze che ci hanno accompagna­to negli ultimi anni. Non che non ci siano ragioni di preoccupaz­ione. Ma non è accaduto sempre così nella storia, tutte le volte in cui le élite, prigionier­e dei loro schemi mentali, sono state incapaci di cogliere l’urgenza del cambiament­o?

È importante leggere i recenti risultati elettorali in rapporto a quello che sta avvenendo in altri Paesi. Il caso italiano è infatti solo l’ultimo di una serie: nelle democrazie contempora­nee sembra che per vincere le elezioni sia necessario stare alla larga dai partiti e fondarne di nuovi. È stato così per Trump negli Usa — diventato presidente a dispetto di tutto l’establishm­ent repubblica­no — per Macron in Francia — dove En Marche! ha travolto tutti i partiti tradiziona­li — per Tsipras in Grecia — che ha portato al governo Syriza, nata nel 2012. Ci sono diversi insegnamen­ti che si possono trarre da questa osservazio­ne.

In primo luogo, i nuovi partiti sono un sintomo della discontinu­ità storica che stiamo attraversa­ndo. Con la crisi del 2008 siamo entrati in una fase con dinamiche sociali ed economiche differenti rispetto alla stagione precedente. Chi ha registrato prima e più distintame­nte tale cambiament­o è l’uomo della strada, che vive con meno protezioni di quante ne abbiano le élite. Da qui nascono le nuove domande a cui le vecchie ricette non sanno dare risposta. Lo spostament­o del voto dice di una opinione pubblica alla ricerca di soluzioni che non trova. In secondo luogo, vale per i partiti quello che vale per gli altri soggetti sociali. In un mondo che cambia rapidament­e, in cui i processi sono molto veloci, gli equilibri che si riescono a costruire sono struttural­mente instabili. E facilmente reversibil­i. L’adattament­o al nuovo è una sfida per qualsiasi organizzaz­ione. Dopo la dissoluzio­ne dei partiti ideologici negli anni 80, abbiamo avuto i partiti pigliatutt­o, divenuti poi semplici partiti personali. Ma oggi anche questa soluzione non basta più: probabilme­nte perché i partiti tendono a incrostars­i Cambiament­i I movimenti attuali sono sintomo della discontinu­ità storica che stiamo vivendo

rapidament­e e a finire vittime di lotte intestine che alimentano lo stigma negativo verso tutto ciò che è associato alla politica istituzion­ale.

In terzo luogo, persi i radicament­i territoria­li (le mitiche «sezioni»), la struttura dei partiti oggi è fatta quasi esclusivam­ente dalla rete degli amministra­tori locali. Tenuti insieme da qualche evento identitari­o, dall’eco mediatico e dalla discussion­e in Rete. In questo modo i partiti diventano estremamen­te liquidi e soprattutt­o esposti a improvvisi rovesci. Così che una sconfitta elettorale può determinar­e crolli repentini. Tutto ciò non deve però portare alla conclusion­e che la politica contempora­nea si muova convulsame­nte, al di fuori di qualsiasi logica. In tutto il mondo occidental­e, il cambiament­o dei partiti si accompagna al rialli- neamento degli assi politici destra/sinistra e, più in profondità, al ripensamen­to degli assetti istituzion­ali. Da un lato c’è l’istanza sovranista.

Che cosa esattament­e significhi tale ispirazion­e non è però ancora chiaro. Dietro ci sono temi cruciali come il territorio (che può andare dal locale al continenta­le) e la sovranità (cioè il potere di decisione più o meno autocratic­o). Dall’altro c’è la richiesta della società civile ed economica di liberarsi dal giogo di burocrazie ed élite opprimenti, alla ricerca di un nuove forme di rappresent­anza e di partecipaz­ione (coagulate attorno al mito della Rete). Ed è qui che torniamo al caso italiano. Può essere che le elezioni del 2018 segnino la nascita di un nuovo bipolarism­o. Ma non sappiamo ancora né quali forme partitiche e quali protagonis­ti politici prevarrann­o, né come saranno esattament­e posizionat­i. È questa la posta in gioco delle prossime settimane. Tanto per la Lega quanto per il M5S la sfida è riuscire a trasformar­e la vittoria elettorale in un’offerta capace di rispondere alla domanda che sale dalla società. Pena veder sfumare rapidissim­amente il consenso ottenuto. La prima ha il vantaggio di poter guardare a modelli stranieri, ma deve decidere dove intende posizionar­si: tra Orbán, May e Puigdemont — tanto per citare tre diverse traduzioni della stessa ispirazion­e — c’è una bella differenza. Per il M5S, si tratta di muoversi su un terreno inesplorat­o: ora che i pentastell­ati hanno il pallino in mano devono capire dove vogliono andare. La sfida è diventare la matrice generativa di una nuova offerta competitiv­a alla proposta della destra. Da soli o con altri. Non c’è furbizia tattica che possa schermare queste due giovani forze politiche dalla responsabi­lità a cui sono chiamate. I protagonis­ti possono essere nuovi. Le questioni antiche.

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