In montagna con l’amico Segre
Vacanze in Val d’aosta e Trentino studiando i sentieri e parlando di linguistica
Porto con me molti ricordi dell’uomo Cesare Segre e una certa eredità del suo sapere. Non come allievo, ma come discepolo occasionalmente acquisito e poi ripetutamente in contatto con lui.
C’è stato un periodo iniziale di forte mia frequentazione con Segre negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta. Lo avevo conosciuto attraverso Maria Corti (della quale sono stato successore, dapprima per incarico, sulla cattedra di Lecce) e ci aveva presto accomunati la passione per l’alta montagna. Per alcuni anni si concordò di passare insieme due o tre settimane di vacanze estive in località alpine, prevalentemente della Valle d’aosta. Si sceglieva una località e si concordava un periodo, per il quale io avrei preso in affitto, per la mia famiglia, un piccolo appartamento e lui sarebbe andato in un albergo non lontano. Ho conosciuto, in questo modo, anche vari suoi familiari, suo fratello Carlo e sua sorella Adriana, con i loro figli, divenuti amici dei miei figli. Durante quei soggiorni, tra i vari momenti di svago, di scoperta dei luoghi e di conversazione scientifica, ricordo lo studio serale delle carte dei sentieri, di cui era fornitissimo, in preparazione delle escursioni dell’indomani. Una preparazione particolare richiese una gita molto impegnativa, di due giorni, alla vetta del Gran Sertz (m 3552), nella Valnontey, con traversata di ghiacciaio e arrampicata finale, dal 16 al 18 agosto del 1967. Memorabile, per altri aspetti, la puntata a Gressoney, l’anno dopo, per far visita a Carlo Dionisotti. Un altro anno, non ricordo quale, si varcò il confine svizzero per andare a trovare padre Giovanni Pozzi nel suo convento a Locarno. A Cogne era frequente l’incontro con Benvenuto Terracini, il venerato maestro di Cesare e del bel gruppo dei Torinesi, come la Corti, Bice Garavelli, D’arco Silvio Avalle, ogni tanto compresenti negli stessi luoghi. Vi veniva anche Natalino Sapegno, che, tra l’altro, era stato correlatore della mia tesi di laurea a Roma (qualche sera veniva, con gli altri, a bere il genepy nel nostro tinello, tra le pentole e i fornelli. Chi l’avrebbe mai detto?). Della cerchia facevano parte anche Lore Terracini, Aurelio Roncaglia, il giovane matematico Francesco Speranza. Ancora in tema di viaggi, non posso dimenticare il piacere che provai quando Cesare mi chiese di fare, nella primavera del 1965, un viaggio in Abruzzo, regione a lui pochissimo nota: episodio centrale fu la visita ai luoghi di Celestino V, fin su all’eremo abbarbicato alle rocce del monte Morrone. (Ne scrisse un diario Maria Corti, nei suoi Congedi primi e ultimi, pp. 73-77).
In tali circostanze, la conversazione sui suoi e sui miei studi era continua. Mi occupavo, negli anni di quelle vacanze, di testi delle origini e la mia ricostruzione dell’evoluzione dalla diglossia del latino circa romançum al bilinguismo latino/volgare e tutte le mie ricerche sui primi testi romanzi passarono sotto il vaglio serrato di Segre e, durante una vacanza a Poschiavo, nel 1966, di Terracini: questi continuò la discussione, dopo i rispettivi ritorni in città, inviandomi una lettera che cominciava «Come il cacciatore insegue la lepre che fugge …». Nella cerchia di Segre si discuteva molto, in quegli anni, di semiotica, ambito poco attraente per me, di formazione fortemente filologica e storica. Ma si andavano aprendo, intanto, le prospettive della linguistica testuale anche nell’area dell’italianistica e un po’ alla volta divenne questo il campo preferito per le mie consultazioni della fonte più illuminante per i miei studi. Quanto da lui prodotto in argomento a partire dalla metà degli anni ’70 è servito, infatti, a formare un’intera generazione di studiosi che pur lo seguiva anagraficamente da vicino.
Negli anni non più delle scorribande sulle cime valdostane, ma degli incontri in sedi congressuali o delle mie periodiche visite a casa sua a Milano, sollecitavo i giudizi di Cesare soprattutto sui due temi intorno ai quali concentravo la mia attività: l’applicazione della grammatica valenziale alla descrizione dell’italiano e la costruzione di una tipologia dei testi che tenesse conto della dimensione pragmatica dell’atto comunicativo. Campi nei quali mi avevano giovato molto varie indicazioni di fondo offertemi dall’amico-maestro. Anzitutto di guardare molto di più a Hjelmslev che non a Saussure e quindi di sfruttare il paradigma generale che mette in relazione il siste- ma della lingua e il processo al quale lo sottoponiamo quando vogliamo davvero «comunicare» qualcosa a qualcuno, ambientalmente e storicamente determinato. Mi avvicinavo sempre più, su questa strada, al disegno di una tipologia testuale basata sul parametro della rigidità/elasticità interpretativa del testo, come carattere previsto dall’emittente ma ordinariamente condiviso dal Ricevente, un riferimento, quest’ultimo, ritenuto essenziale (quando non prevalente) dal mio interlocutore; il quale aggiungeva la raccomandazione insistente e preziosa di dover trovare sempre abbondanti tratti «sulla superficie del testo» per giustificare una qualsiasi sua «classificazione» tipologica. Erano gli anni in cui concludevo, con Vittorio Coletti, i lavori per la redazione del nostro dizionario (DISC) e avevo molti esempi a disposizione per illustrare la specifica funzione che assumevano, nei testi «elastici», le congiunzioni testuali. Fu questo l’argomento che Cesare commentò in modo particolare in un articolo di recensione al Dizionario apparso sul «Corriere della Sera» del 22 maggio 1997 (Lo studio dell’italiano: dalla parola al testo. Quanto vale quel “perché”? Te lo spiega il dizionario; e più avanti, ancora sul «Corriere», del 2 giugno 2011, a proposito del modello valenziale: Come funziona la chimica delle parole). (...)
Tra il 2000 e il 2008 Cesare è venuto a trovarmi più volte all’accademia della Crusca per cercare di condurre in porto, con qualche aiuto finanziario, ma soprattutto con l’apporto di cure editoriali per così dire centralizzate (poi assicurate, infatti, dal nostro Domenico De Martino), la realizzazione del Rimario diacronico dell’orlando Furioso. Riuscire a fargli vedere compiuta quest’opera (riduzione di un progetto di concordanze integrali) che aveva accompagnato l’intera sua vita e alla quale aveva legato anche due allieve tenaci e devote fino alla fine, Clelia Martignoni e Luigina Morini, fu un impegno preso d’impeto da me e da Nicoletta Maraschio, succeduta a me nella Presidenza dell’accademia nel 2008: ci parve di avergli mostrato così, ognuno per la sua parte, almeno un piccolo segno della gratitudine immensa che l’intera nostra generazione gli doveva.
Faceva parte del suo modo di coltivare il rapporto con gli interlocutori una sorta di dolcezza finale nei colloqui. Negli ultimi tempi, c’era, evidente, un velato riferimento all’incertezza di successivi incontri. Lo avevo tante volte osservato in perfetta tenuta da escursionista (calzettoni rossi, camicia pesante a scacchi, immancabile cappello di paglia, sacco in spalla e un lungo bastone). Ma è quest’altra, ora, l’immagine che di lui affiora di più in me: sulla porta di casa, nel suo appartamento di via Pietro Panzeri, con Maria Luisa accanto, in atto di congedo, senza mai dimenticare di chiedere notizia dei «ragazzi» (di una volta) e di mandare «saluti a Francesca», mia moglie.
Compagnia Era frequente l’incontro con Benvenuto Terracini, maestro di Cesare, con Aurelio Roncaglia e, a volte, con Natalino Sapegno