La nuova battaglia di Amal: far scarcerare i 2 giornalisti dei reportage sui Rohingya
L’ annuncio della nuova battaglia di Amal, sposata Clooney, un risultato l’ha già ottenuto. Ha acceso i riflettori sul caso quasi dimenticato dei due giornalisti della Reuters detenuti da dicembre nelle carceri birmane. I due reporter stavano documentando le esecuzioni di massa dei Rohingya nel Paese a maggioranza buddista, un «genocidio» secondo l’onu. Sarà questa paladina dei diritti umani, resa celebre dalle nozze hollywoodiane, a difenderli nel processo che li vede imputati con l’accusa di «possesso di documenti governativi riservati». Un reato che, se confermato, potrebbe costare 14 anni di cella.
In realtà, secondo quanto riferito dai due giornalisti ai familiari, i documenti in questione sarebbero stati consegnati loro da due poliziotti, durante una cena in un ristorante nella capitale, Yangon. L’invito si è rivelato una trappola: subito dopo sono scattate le manette.
«Wa Lone e Kyaw Soe Oo sono stati perseguiti semplicemente perché davano notizie. Ho rivisto il caso ed è chiaro oltre ogni dubbio che i due giornalisti sono innocenti e dovrebbero essere rilasciati immediatamente», ha dichiarato ieri Amal, denunciando il fatto che ai due giovani reporter sia stata negata la libertà su cauzione.
Due professionisti birmani(agli stranieri l’ingresso nel Paese è proibito), giovani e coraggiosi: Wa Lone, 31 anni, nato nel nord e basato nella capitale, e Kyaw Soe Oo, 27, buddista del Rakhine, la regione settentrionale dove si concentravano i Rohingya prima di essere messa a ferro e fuoco dall’esercito dopo i disordini d’agosto. Per anni era riuscito a tenersi lontano dalle tensioni tra buddisti e musulmani sotto casa, ma l’escalation del conflitto lo ha portato al giornalismo. Insieme a Wa Lone, questo 27enne ha documentato lo sterminio di 10 Rohingya — 8 adulti e 2 ragazzi — poi riversati in una fossa comune, per mano delle forze di sicurezza, sostenute da residenti buddisti in un villaggio del «suo» Rahkine.
Il loro lavoro ha un che di unico. Fino a quel momento i resoconti delle violenze contro la minoranza musulmana si erano basati sulle testimonianze delle vittime (o sulle immagini satellitari). La ricostruzione dei due reporter invece per la prima volta ricorreva alle confessioni degli «aguzzini»: residenti buddisti che ammettevano di aver saccheggiato e dato fuoco alle case dei Rohingya, di averne ucciso gli abitanti, e agenti che riferivano dei soldati implicati. In particolare membri della polizia paramilitare hanno fornito descrizioni accurate dell’operazione condotta a Inn Din che confermano il ruolo di primo piano svolto dai militari. «Una tomba per dieci persone» riferiva Soe Chay, soldato in pensione che aveva contribuito a scavare la fossa e aveva assistito all’esecuzione. «I soldati colpivano ogni uomo due o tre volte ma alcuni erano ancora vivi quando venivano seppelliti», ha raccontato.
«L’esito di questo caso ci dirà molto dell’impegno del Myanmar sullo stato di diritto e la libertà di parola», ha osservato Amal. L’avvocato-attivista nel 2015 era riuscita a far scarcerare due giornalisti di Al Jazeera detenuti in Egitto. La sua ultima grande battaglia è quella condotta in difesa di Nadia Murad e delle altre yazide, le donne curde rapite e sfruttate come schiave del sesso dai jihadisti dell’isis che avevano invaso la loro regione, il Sinjar, in Iraq, nel 2014. Una vittoria a metà per ora: nel settembre scorso è passata una risoluzione Onu per aprire un’indagine sui crimini contro l’umanità commessi dall’isis ma un tribunale internazionale non è ancora stato istituito. Sul caso dei due reporter un primo verdetto è atteso per il 4 aprile: la strada di Amal è in salita.