«Blob» e «Chi l’ha visto?», archeologia del sapere di Rai3
«B lob», insieme con «Chi l’ha visto?», è l’ultima sacca di resistenza guglielmina di Rai3. «Blob» ha visto la luce il 17 aprile 1989. In tanti anni ha mostrato molte cose ed è stato molte cose: un montaggio di citazioni prese a prestito da altri programmi, un espediente critico per analizzare la tv, il trionfo dell’autoreferenzialità (la tv che parla di tv), un divertente collage di frammenti che catturano ed esibiscono impietosamente papere, disturbi, errori, dichiarazioni folgoranti, vuoti, lapsus, gaffe.
«Blob» è video allo stato puro, con il suo repertorio di formule logorate dall’abuso e il suo arsenale di frasi fatte, a riprova che il vuoto è fatto di pieni. Il «Blob» delle origini era un’operazione squisitamente linguistica ed esprimeva come nessun altro programma uno stato d’animo: la voglia di frammentare, di sconnettere, di ritagliare; il desiderio iconoclasta di abbattere i miti delle sequenze compiute; il trionfo del regno dell’uguale, dove non esistono più gerarchie.
Da un lato, la raffinatezza metalinguistica, dall’altro (così la pensava Angelo Guglielmi), il racconto popolare, il neo-neorealismo di «Chi l’ha visto?» o di programmi simili. Oggi, «Blob» potrebbe funzionare con un algoritmo, un’applicazione che ogni giorno mette assieme, creando sequenze di senso, un po’ di Barbara D’urso, un po’ di «Isola dei famosi», un po’ di repertorio storico (Totò va sempre bene), un po’ di Bonolis o di Bruno Vespa, Tina Cipollari, una spruzzata di telegiornali e una spolverata di Camilleri mentre presenta il centesimo episodio di Montalbano. «Blob» e «Chi l’ha visto?» resistono non solo perché sono archeologia della televisione ma perché ormai sono anche archeologia del sapere.
Non sono tracce al di fuori del tempo conservate con cura, ma sono descrizioni continue di altri discorsi, sono le forme stesse del loro accumulo e della loro concatenazione.