Pasquette d’italia Come eravamo
L’850 color crema, barbe lunghe e chitarre Il gran rito della gita con pranzo all’aperto
L’850 color crema dello zio Enzo e la 600 bianca del cugino. Bastavano due auto per trasformarsi in «turist» in quelle Pasquette degli anni Sessanta. In quell’epoca di pochi viaggi si veniva guardati con considerazione già solo per il semplice fatto di venire da fuori; anche se da una così piccola distanza.
All’inizio ci sono queste due macchine: l’850 color crema di mio zio Enzo, brigadiere e dongiovanni impenitente e la 600 bianca di Gaetano Cappelli, mio cugino, omonimo, nerd occhialuto e professore come papà. Erano gli anni boom, e a turno venivano a prenderci per portarci dal resto della famiglia ed era lì, in una di quelle macchinette, che, percorrendo gli appena cinquanta chilometri dal paese, che avveniva la nostra trasformazione alchemica, e da banali ragazzini ci trasmutavamo in «turist», come si chiamavano gli emigrati, vicini e lontani, che a ogni Pasqua, percorrendo la nuovissima luminosa autostrada del Sole si riversavano nei luoghi d’origine, fieri di mostrare il loro nuovo benessere.
Annoi invece, spettava una di quelle terribili strade interne dell’appennino lucano e così, un’ultima e spesso fatale curva — si vomitava assai in quegli anni fulgenti — e ci appariva la piazza e... com’era diversa da quando ci capitavamo d’inverno, magari per la morte improvvisa, a volte misteriosa, di un parente lontano.
C’erano voiture parcheggiate dovunque e quanta gente... ce n’era tanta che sembrava la festa del Santo patrono, solo che non era il giorno del Santo patrono, né la folla era la solita folla di paesani che si accalcava davanti ai bar in quell’occasione. Abiti sgargianti, dalla foggia inusuale, collettoni e cravatte a prosciutto e targhe sconosciute
— avremmo fatto a gara, nei giorni seguenti, a chi più ne appuntava sui taccuini — e qualcuna di quelle immense alettate macchine rosa, fuxia, pastello, guarnite da quintali di cromature che guardavamo straniti come fossero splendenti astronavi planate in paese per un caso, mentre con le buste piene delle uova pasquali per i nostri cugini, li raggiungevamo emozionati di rivederli dopo mesi.
Ma ancora più emozionati erano loro: stavano per accogliere in casa dei «turist»! Eggià, perché in quell’epoca di pochi viaggi si veniva guardati con considerazione già solo per il semplice fatto di venire da fuori; anche se da una così piccola distanza. Allora, ogni volta ci illustravano come novità assolute cose che ormai conoscevamo da anni. Così i suoni sinistri delle troccole nel sinistro rito del Venerdì santo, con tanto di fiaccole e incappucciati tipo Ku Klux Klan e livide madonne trafitte, e di conseguenza, dolenti. Ci portavano poi a vedere in giro nuovi posti — in realtà, sempre gli stessi —, nella pausa sonnolenta del sabato in attesa della Resurrezione. Finché, quella avvenuta, di
mattino presto le rondini inseguivano, strepitanti, le melodie sacre di Schubert e Bach e Gounod diffuse nel cielo tersissimo dai parroci rivali. Poi, col ruvido vestito della festa, raggiungevamo le case dei nonni. Io, quella affacciata sugli azzurri Alburni e piena di ricordi, vecchi libri infestati da larve, pile di «Domeniche del Corriere» illustrate da Beltrame, cilindri sfondati e meravillliose pistole da duello e archibugi arrugginiti. Ed era l’unico sollievo, durante il pranzo interminabile, e prima della vera festa. Ovvero la gita di Pasquetta. Lì era pieno di ragazzine «turist», con le loro minigonne, il trucco e i capelli shampati di fresco, anche se non feci mai niente più che guardarle inebriato dalla loro bellezza; oltre che dal vino scadente.
Fin quando smisi di andarci. L’ultimo anno fu il 1971. Ed eccoci lì. Eccome eravamo belli — vabbé, tranne le dovute eccezioni —, ai piedi della grande montagna e con alle spalle questo pagliaio assai country, tipo in una copertina di Neil Young, con capelli lunghi, barbe, bandane, e terribili maglie a righe orizzontali, e sigarette e chitarre ma anche con cravatte; piuttosto overdressed per l’occasione: insomma tutta la varietà antropologica di quegli anni. Ed eravamo tanti. Un vero nugolo, alcuni in piedi, altri accosciati, i più disinvolti sdraiati.
Ci rivedevamo dopo qualche anno, pronti a compulsare l’andamento delle nostre vite. Non ricordo molto di quella giornata, tranne che come ogni Pasquetta che si rispetti improvvisamente piovve e cantammo e suonammo e che si sentiva l’aria leggera della primavera. E la sento ancora mentre guardo e riguardo questa foto e mi chiedo dove staranno, adesso, tutti quei giovani «turist» d’allora.